Cina 2013. Con Le Geng, Li Xiaoran, Park Ye Jin,
Tumen, Zhao Youliang
Il film, ben girato soprattutto nelle scene di natura di deserti
e montagne, e composto da dialoghi pertinenti alla materia trattata, è
un’interpretazione, fedele geograficamente, ma in parte fantasizzata e
liberamente adattata nell’intreccio, di un episodio storicamente verificatosi,
ovvero il viaggio iniziato nel 1220 dall’alchimista taoista Qiu Chuji (il cui
nome di religioso è Ch’ang Ch’un) dallo Shandong verso Ovest fino all’Hindu
Kush nell’odierno Afghanistan per ordine di Genghis Khan, che era arrivato
nelle conquiste fino a quell’estremo Occidente asiatico e conosceva la fama
spirituale di Ch’ang Ch’un, cui infine consentì di tornare a Oriente, dove egli
giunse nel 1224.
Il resoconto storico, redatto da Li Chih-Ch’ang, un
allievo del saggio taoista [1], mette in
rilievo le filosofia del Maestro, include qualche miracolo, ma solo relativi a
sollecitare la pioggia in zone aride, puntando invece sulla naturalezza delle
convinzioni teologiche e filosofiche, sull’ascetismo rigoroso, la dieta
vegetariana, l’astinenza da pratiche sessuali, l’altruismo.
Un episodio del resoconto di Li Chih-Ch’ang, ripreso dal
film, è quello in cui Ch’ang Ch’un spiega con semplicità che l’Elisir di Lunga
Vita (di cui si favoleggiava fossero in possesso i taoisti) non esiste:
“[Genghis Khan chiese] ‘Adept, what medicine of long life have you brought me
from afar?’ The
Master replied: ‘I have means of protecting life, but no elixir that will
prolong it’. The Emperor was pleased with his candour, and had two tents for
the Master and his disciples set up to the east of his own”.
Altro episodio del diario di viaggio che compare nel film
è la caduta da cavallo del Khan durante una caccia e un cinghiale che lo
risparmia, con la seguente interpretazione del taoista: “The fall […] had been
a warning, just as the failure of the boar to advance and gore him had been due
to the intervention of Heaven”, per cui, suscitando l’obbedienza del Sovrano,
gli consiglia di cacciare il meno possibile per risparmiare vite degli esseri
se non può smettere del tutto date le tradizioni della cultura mongola.
Dell’elisir il film fa assunto centrale, chiamando il
sant’uomo presso il Khan proprio per questa ragione; e sebbene riporti la
rispettosa stima in pubblico di Genghis di fronte alla sincerità, mostra in
aggiunta la sua delusione in privato. Anche della scena del cinghiale, viene
accentuata dal regista l’atmosfera magica, come in generale in altri episodi
addizionali, soprattutto quello di un miracolo della resurrezione, in cui Qiu
Chuji pianta la verga a terra nella tenda del Khan e promette che, quando essa
produrrà delle foglie, guariranno tornando in vita la moglie del Re e un’altra
donna avvelenatesi con false pillole dell’immortalità, il che accade in effetti.
Relativamente al racconto stilato da Li Chih-Ch’ang,
Arthur Waley chiarisce che, lungi da miracoli, nella tradizione taoista al
punto in cui la raccolse Ch’ang Ch’un creando la setta “Dragon Gate”,
l’alchimia non era più la ricerca dell’immortalità tramite mezzi di
trasformazione dei metalli, ma “a system of mental and physical re-education”,
un “mysticism” che fa del Tao la fonte dell’energia che pervade l’universo e
una linea di condotta morale che tende la mano agli esseri per sostenerli e aiutarli.
I taoisti,
scrive il discepolo, “must learn not to desire the things that other men
desire, not to live in the places where other men live. They must do without
pleasant sounds and sites, and get their pleasure only out of purity and
quiet”.
Al film si aggregano anche elementi avventurosi, in un
insieme piuttosto armonioso e ben realizzato che rende la storia gradevole
oltre che istruttiva.
Nulla, è chiaro, sostituisce comunque, almeno per noi, il
testo scritto.
[Roberto Bertoni]
[1] Utilizziamo la
traduzione inglese di Arthur Waley, The Travels of an
Alchemist: The Journey of the Taoist Ch’ang Ch’un from China to the Hindukush
at the Summons of Chingiz Khan, Londra, Routledge, 1931 (Edizione Kindle).