Tratto dall’edizione definitiva di Murmuri ed echi a cura di G. Cassinelli. Milano,
Scheiwiller, 1994
Pubblicato in prima stesura nel 1914 e
rimaneggiato più volte nel corso di edizioni successive, articolato su
descrizioni, riflessioni, interazione di poesia e filosofia, Murmuri ed echi
di Mario Novaro riflette tanto la transizione dal pascolismo verso la poesia novecentesca,
anticipando per certi versi Montale, quanto il laboratorio fervido della Riviera
ligure, la rivista che Novaro diresse e su cui scrissero poeti a lui
compatibili, quali Sbarbaro.
Il brano che segue, sulla relatività della
comprensione umana e sull’aspirazione cosmica, in parte leopardiana, ma
prevalentemente metafisica, verso un infinito che stenta a manifestarsi, nonché
nella somma prettamente ligure di meditazione e natura, è tratto da una serie in
prosa ritmica intitolata “Monti” (pp. 39-40 del volume).
“Il tutto, è vero, in
ogni senso ci sfugge, e anzi come tale non è. Tutto che noi comprendiamo
raduniamo a unità ma l’assoluta unità e sintesi sorpassa il nostro potere.
Il finito su sfondo
infinito, il finito simbolo dell’infinito riman nostro campo nostra quiete,
nostro ideale nostra eterna inquietudine.
Cime del pensiero, più
sublimi che gli astri, più fredde e pure che le intatte nevi dei poli, non spegnete
il battito del piccolo cuore dell’uomo, senza vertigine elevatelo a voi, che vi
risponda e v’uguagli.
Monti che mescete l’aeree
vette con l’azzurro cupo, mare turchino, specchio immenso del sole, oh pervadete
di lucido azzurro, pervadetela di infinito questa umana vision della vita!”.
[Roberto Bertoni]