[Paris Chinatown (Belleville 2014). Foto Rb]
Goffredo Parise, Cara Cina. Prima
edizione 1966. Torino, Einaudi, 1972
Il reportage
di Parise cerca di evitare l’esotismo, cedendovi solo a tratti e con simpatia
umana per la realtà esaminata; in particolare nelle notazioni sulla bellezza
muliebre, ove compare l’ineffabile, aspetto del mistero che è una delle chiave
di volta dell’orientalismo, ma al contempo si manifestano il rispetto e
l’ammirazione:
“Ho visto decine e decine di donne cinesi, dalle
più umili facchine che tiravano il carretto fino alle intellettuali che
occupano posti di grande rilievo. Alcune erano belle: di uno stile così alto,
così naturale, così antico e ineffabile […]. La donna cinese […] è diversissima
dalla donna occidentale e, bella o brutta, è quasi sempre bella. Questa
bellezza è data […] dallo stile” (p. 122).
Un altro tipo di generalizzazione orientalistica, basata
questa sull’osservazione di moduli non comprovati culturalmente, è una supposta
tendenza cinese alla ripetizione (“i cinesi amano […] ripetersi e non conoscono
la noia”, p. 45) e l’assenza di “espressione individuale” di cui i cinesi “non
[…] hanno mai sofferto” (p. 26), più volte reiterate nel testo e contraddette,
tra parentesi, specie la seconda, dalle interviste condotte con intellettuali
nelle ultime pagine. Piuttosto insolita anche l’idea che “i cinesi non sono mai
stati un popolo religioso” (p. 23), su cui ci sarebbe abbastanza da dire
pensando al Buddhismo, per esempio, al Taoismo, alla funzione non solo civile
del Confucianesimo.
Per il resto, tuttavia, la fattualità, una
relativa modestia del non affermare di sapere tutto sulla Cina e un approccio
non visceralmente avverso alla realtà esaminata caratterizzano questi articoli
scritti inizialmente per il Corriere
della Sera.
Se non si può dar torto all’irritazione per una
messa in scena di una storia patetica affidata a un’attrice al fine di impietosire
l’osservatore straniero e spingerlo a simpatizzare con la Cina maoista, ma
sfortunatamente la stessa storia raccontata a un altro giornalista da un’altra
persona, dunque presumibilmente falsa, è vero che Parise dà per scontato, senza
ingigantirlo a fini propagandistici, l’apparato propagandistico e riesce a
leggere tra le righe più di una volta.
Osserva, per esempio, la timidezza dei cinesi di
quel tempo, l’ospitalità, la collaborazione altruista.
Frattanto chiede alla persona incontrata casualmente,
come pure a individui dotati di responsabilità politiche e civili, delle loro
persuasioni ideologiche e verifica adesione al marxismo, quindi nelle versioni
che gli vengono proposte da coloro con cui parla si profila una concezione di
politica al primo posto che era corrente nelle ideologie di quegli anni nella
Repubblica Popolare. Talora questa concezione del mondo si esprime con
semplicità, talaltra con fanatismo (parola menzionata a p. 104).
Nota da un lato le gigantografie della propaganda
nei manifesti (“i cartelloni li vogliono […] alti, nerboruti, bronzei, con la
mascella quadrata”); dall’altra “hanno l’aspetto di un popolo mite e segnato da
grandi dolori, portato alla difesa, all’unità, alla chiusura, alla diffidenza
contadina, alla superbia etnica: in una parola un popolo centripeto e non
centrifugo” (p. 54).
Anche Parise, come abbiamo già notato per Moravia (ma è un concetto eccentrico, abbastanza comune tra gli occidentali che visitarono la
Cina prima dei nostri giorni), non aderisce al teatro cinese: trova l’opera
maoista troppo propagandistica, il che era vero, in effetti tali lavori erano
basati sulla propaganda e tesi a suscitare emozioni pro-rivoluzionarie, ma che
dire dell’idea piuttosto idiosincratica, dovuta a una trasposizione occidentalistica e aliena alle convenzioni teatrali autoctone, che “le truccature
sono infantili” e i “personaggi somigliano a bambole” (p. 46)?
[Roberto Bertoni]