[Were they telling each other a secret that the camera was unable to know? (Nara, 2013). Foto Rb]
Banana Yoshimoto, HONEYMOON. Ed. originale giapponese 1997. Trad. G. Amitrano. Milano, Feltrinelli, 2010
Manaka e Iroshi si conoscono fin da bambini,
vivendo in due case confinanti, lei col padre e la madre adottiva, lui col
nonno malato, che a un certo punto muore. Come per un andamento naturale, si
sposano a diciotto anni e lui entra a far parte della famiglia di lei.
Sembrerebbe una storia semplice, finanche
banale e felice. La delicatezza con cui è narrata e il tono di normalità che accompagna il racconto da
parte del personaggio che dice io, Manaka, conferisce appunto questa
impressione. In realtà si dipanano elementi di difficoltà e disadattamento.
La famiglia, mentre ne vengono riconfermati
gli aspetti di affetto coniugale e parental-filiale, è mostrata nella
disfunzionalità, che viene composta con armonia nel caso di Manaka, la cui
madre adottiva le vuole bene e la incita a vedersi con la madre biologica; e
provoca invece nevrosi nell’opposto caso di Hiroshi, cresciuto riservato oltre
il normale e timido per via, si scopre poco per volta, dell’abbandono da parte
dei genitori, entrambi membri di una setta religiosa di ispirazione
probabilmente pagana che li spinge alla fine al suicidio collettivo.
L’atrocità di questi fatti, che riecheggia
fenomeni di cronaca giapponesi e che si ritrovano anche in altri autori contemporanei (per esempio nel Murakami di 1Q84), viene presentata con leggerezza di stile e col minimalismo
proprio di Yoshimoto.
L’emotività è affidata più al silenzio che
alla parola, con descrizione di stati d’animo ma espressione laconica.
Oppure sono le descrizioni di atti quotidiani
che portano in luce i sentimenti:
“Guardando la precisione con cui aveva riempito i
contenitori, diviso accuratamente i libri a seconda della misura e li aveva
legati con lo spago, e come aveva accatastato ordinatamente i mobili, la vera
tristezza di Hiroshi e il suo silenzioso affetto per il nonno mi arrivarono
diritti al cuore, e non potei trattenere le lacrime” (p. 23).
O la natura:
“Quando, ovunque io sia, vengo presa
dall’inquietudine, nel mio spirito ritorno al giardino. Il giardino è il punto
dal quale sono partite le mie sensazioni, lo spazio, eternamente immutabile,
dove trovo la misura delle cose” (p. 12).
Anche nella negatività del contesto generale
emergono sensazioni positive, esternate con voluto infantilismo e calcolata
estrema semplicità, che risultano spontaneità, per esempio:
“In un attimo siamo attraversati da una comunicazione
così profonda che è impossibile immaginare qualcosa di nuovo e di più bello”
(p. 12).
La parola che dà il titolo al romanzo coincide
con un’evasione dalla dimensione chiusa delle case e del quartiere in cui
abitano i protagonisti: la prima volta verso una città costiera per consentire
a Hiroshi di sfuggire alla ricerca di un amico del padre, anche lui
appartenente alla setta del genitore; la seconda in Australia, dove abita la
madre di Manaka. Questi altrove costituiscono un modello di liberazione dalla
claustrofobia.
Su un piano di contrasto si pongono anche gli
spazi simbolici del giardino di Manaka e della casa buia e senza giardino di
Hiroshi.
Vero che la scrittura di Yoshimoto ha per tema
“tante vite tutte simili tra loro sparse da ogni parte, che nuotano
accompagnate da un numero infinito di pensieri” (p. 103). Il tratto
caratteristico è proprio questa somiglianza di personaggi e situazioni con le
varianti personali in ciascuna delle storie che narra.
[Roberto Bertoni]