[How many were coming from different worlds? But aren's we all? (Milan 2012, Foto Rb)]
“Ci estendiamo nel passato
attraversando i detriti del tempo e lo restituiamo al presente per mezzo di
quelle strutture e di quelle associazioni contemporanee che offrono una
continuità tangibile”.[1]
Si è scelto di introdurre il presente
discorso con un breve passaggio tratto dalla monografia di Ian Chambers (nota
1) per dare fin da subito un panorama circa la breve riflessione che seguirà,
che si pone come obiettivo quello di offrire una lettura della contemporanea
situazione globale di emigrazione/immigrazione (dipende dai punti di vista) a
partire dalle intime dinamiche esistenti tra società, culture, periodi e luoghi
diversi, corrispondenze che emergono, soprattutto, a livello letterario. Pertanto,
verranno vagliate delle narrazioni aventi
come tematica privilegiata la ricerca dell’identità, individuale e collettiva,
da parte di soggetti “marginalizzati”, nello specifico da parte di donne di
colore, emigrate di seconda o terza generazione. Nello specifico, la
discussione prende piede sostanzialmente dal memoir della scrittrice e
regista italo-afro-americana Kym Ragusa The Skin Between Us. A Memoir of
Race, Beauty and Belonging (2006),
grazie al quale indagare su come un incontro multietnico, reso possibile da
percorsi migratori che hanno attraversato oceani, mari e mondi lontani (da
quello mitico siciliano a quello africano fino a raggiungere gli Stati Uniti),
possa dare origine ad una autobiografia che ri-percorre un passato antico e
frammentario che ri-vive nelle parole delle nonne dell’autrice, attraverso le
quali lei cerca con forza di ri-trovare le sue radici, la sua identità ibrida ripercorrendo,
metaforicamente e fisicamente, le stesse strade dei suoi antenati. Si tratta di
una storia di appartenenza, grazie alla quale Ragusa, non solo attraversa i
confini geografici, ma anche quelli che le fanno percepire la sensazione di
sentirsi la “straniera”, l’“altra” e le rendono difficile (se non impossibile)
trovare una risposta a domande quali “What are you?”/“Where are you
from?” (pp. 25-26): si tratta dei confini rappresentati dal colore della
sua pelle. Sono questi interrogativi che, seppur da prospettive diverse,
emergono anche dalle due
raccolte di racconti Pecore Nere e Amori Bicolori, contenenti gli scritti
di Gabriella Kuruvilla, Laila Wadia, Ingy Mubiayi, Igiaba Sceg, nonché, di
quest’ultima, il romanzo Oltre Babilonia.
Si tratta,
dunque, di un discorso che può essere valido non solo per lo specifico contesto
geografico e momento storico di riferimento (il XX secolo), ma è applicabile
anche a qualunque altra epoca o paese di approdo, meta di passate e presenti
migrazioni di individui. Una prospettiva migratoria che è alla base di
qualunque ricerca identitaria qui presa in esame, nonché interessante punto di
partenza per riflettere anche su come, nonostante il passare dei secoli e i
cambiamenti che ciò comporta, sia sorprendentemente possibile rintracciare
dinamiche che accomunano periodi storici radicalmente diversi tra loro,
produzioni letterarie appartenenti, appunto, ad epoche diverse, e conseguenti
riflessioni sulle identità individuali e collettive. Per questa ragione,
questioni quali, emigrazione e immigrazione, esilio, spaesamento, sradicamento
non sono affatto prerogativa dell’immediata contemporaneità, ma investono gli
ormai 500 (e più) anni della modernità nel suo complesso, dalla “scoperta
del “Mondo Nuovo” all’arrivo dei motoscafi sulle coste nordiche del
Mediterraneo di oggi”.[2] Si tratta, quindi, di una storia di emigrazione
che ha caratterizzato e contribuito a scrivere anche la storia d’Italia,
proprio per le sue dimensioni epocali in quanto ha coinvolto allo stesso modo
quei 27 milioni di italiani che, a partire dalla fine dell’800, decisero di
abbandonare la vita rurale del sud e nord Italia per dirigersi verso nuovi
mondi di approdo, e molto ha in comune con i migranti di oggi abbandonati sulle
spiagge italiane in cerca di una ricollocazione e un’alternativa alle loro vite
passate, un passato che, così come per le altre ex-colonie europee, seppure in
termini diversi, anche per l’Italia si ripropone con insistenza, interrogando e
interrompendo il presente e i suoi potenziali futuri.[3] Da una simile prospettiva, e seguendo anche le
riflessioni di Chambers, è necessario proporre una riconsiderazione del
Mediterraneo stesso: uno spazio dai confini che si estendono da nord a sud, da
est a ovest a toccare tre continenti – quattro, se si includono i movimenti
migratori italiani che, proprio attraverso il Mediterraneo, intraprendevano le
rotte dell’Atlantico per raggiungere l’America – e, con essi, una moltitudine
di storie, genti, culture che hanno dato vita ad un senso di appartenenza
sigillato da legami di tipo familiare, commerciale e, soprattutto, culturale.[4] Di conseguenza, è facile giungere alla conclusione
che, mondi geograficamente lontani, “rivelano una sconvolgente prossimità
[…] dinanzi a un orizzonte di mare comune”,[5] in un certo senso un sorta di terzo spazio, un
altrove storico che si va via via riconfigurando con il passare dei secoli.
Quindi, entrando di più nello specifico,
il focus del presente discorso riguarda l’emigrazione/immigrazione come
fenomeni socio-culturali, con tutto ciò che le caratterizza in termini di
ricerca e definizione della propria e altrui identità (l’“alterizzazione” di
cui parla Spivak), appartenenza, confini e sconfinamenti, la voce delle donne
in contesto diasporico, incontro/scontro di civiltà (per riprendere le parole
di Lakhous) e culture, questioni legate alla razza e alla costruzione dell’idea
di bianchezza (proprio per il fatto che le autrici prescelte – Ragusa in
particolare – pongono al centro delle loro ricerche il colore della propria
pelle) e, naturalmente, il viaggio nella sua valenza metaforica che concepisce
le culture come fenomeni in perenne movimento.
Si può ben dire che la parola-chiave della
presente riflessione sia proprio “movimento”, non solo dei soggetti
protagonisti che si spostano lungo assi spazio-temporali (spazi fisici e quelli
della memoria), ma anche dei generi letterari di riferimento, vale a dire il
memoir e l’autobiografia. Due generi che condividono diversi elementi di base,
primo fra tutti il fatto di essere delle scritture retrospettive che prendono
vita da memorie e dal passato, quasi a varcare appunto i confini della
conoscenza attraverso dettagli e frammenti di ricordi. La tecnica è proprio il
recupero, a partire da una storia personale, di una memoria storica e
collettiva, che coniuga scrittura personale e scrittura critica. È possibile
constatare che si tratta di due generi privilegiati dai soggetti
marginalizzati, per i quali separazione e frattura sono elementi centrali nelle
loro vite e, di conseguenza, nelle loro narrative del ricordo che, proprio per
questo, hanno un carattere discontinuo e frammentario. In particolare, Caterina
Romeo, in Narrative tra due sponde,
individua le tre principali caratteristiche dell’autonarrazione: ricordare,
ricostruire, teorizzare e sottolinea che, proprio come le autrici che le
producono, i confini di questi tipologie di scrittura sembrano sfuggire a una
delimitazione precisa per essere continuamente ridefiniti e rinegoziati.
Infatti, dalla narrazione della propria vita (auto-biografia) – si presuppone,
dunque, da un racconto autentico – si passa al ricordo e alla memoria che diventano
qui un modo per creare connessioni tra eventi e soggetti diversi, nonché di
rinegoziare e ricreare la propria identità.
Riguardo poi alla letteratura propriamente
femminile, c’è da mettere in risalto il fatto che la quantità di donne
viaggiatrici è stata relativamente limitata nel corso della storia, per cui i
loro viaggi, di volta in volta, si sono definiti come metaforici. Nello
specifico del contesto postcoloniale, inoltre, le donne accompagnano la
scrittura/ricerca al viaggiare anche fisicamente attraverso mondi, culture e
identità per rintracciare se stesse, e Kym Ragusa con il suo memoir ne è un
ottimo esempio. Inoltre, le narrazioni femminili, grazie anche all’aver messo
in discussione i canoni patriarcali, hanno avuto il grande pregio, per prima
cosa, di aver dato spazio a “voci altre” – non solo marginalizzate ma,
soprattutto, femminili – dal momento che, vivere ai confini, avere identità
ibride e oscillanti come le protagoniste, rende difficile fare ascoltare,
appunto, voci subalterne; in secondo luogo, e di conseguenza, tali narrazioni
hanno avuto il merito di aver prodotto delle riflessioni maggiormente ricche di
conflitti interiori e ambivalenze – l’ambivalenza della propria identità e
dell’appartenenza razziale. Pertanto, come sottolinea anche Lidia Curti in La voce dell’altra riprendendo le
teorizzazioni di Jane Bowles, negli specifici casi presi in considerazione,
diviene inscindibile il legame tra viaggio e scrittura, definito tra l’altro
come geografia interiore fondata anche sulla contraddizione tra il
rafforzamento dell’identità e perdita di sé, chiarezza e mistero, arricchimento
della conoscenza e rifiuto di essa.
Si tratta di tematiche particolarmente
stimolanti, perché richiamano inevitabilmente ulteriori riflessioni sulle
condizioni delle autrici di riferimento che, tuttavia, hanno un respiro più
ampio. Ad esempio, un logico corollario degli spostamenti fisici risulta essere
la forte valenza che acquisiscono i luoghi di transito i quali, nei casi
considerati, sono rappresentati dal mare o dal deserto, e si distinguono quali
momenti di passaggio tra mondi diversi e remoti e occasioni di attraversamento
(esemplare è lo stretto di Messina, dove ha inizio il viaggio-ricerca di Kym
Ragusa) che pongono l’individuo in una condizione di “in-betweenness” e di
sospensione, collocandoli in una prospettiva privilegiata dalla quale dar vita
alla suddetta ricerca e riconsiderazione dell’identità individuale e
collettiva. Ancora una volta, emerge l’irriducibilità di qualunque margine e,
piuttosto, una forte reciproca dipendenza tra individuale e globale, tra locale
e collettivo che fa venire meno anche il classico concetto del “ritorno a
casa”. Per le autrici, infatti, il ritorno alle loro origini crea quella
sensazione che Heidegger definisce “Unheimlichkeit”,
letteralmente “non-essere-a-casa”, un sentirsi ovunque ospite e straniera,
condizione dalla quale scaturiscono interrogativi quali: cosa vuol dire, oggi,
essere/tornare a casa?
Bibliografia primaria
- Ragusa, K., The skin between us. A
Memoir of Race, Beauty and Belonging, Londra e NewYork,
W.W. Norton& Company, 2006
W.W. Norton& Company, 2006
- Capitani, F. e Coen, E. (a cura di), Pecore Nere, Roma-Bari, Laterza, 2005.
- Capitani, F. e Coen, E. (a cura di), Amori bicolori, Roma-Bari, Laterza, 2008.
- Scego, I., Oltre Babilonia, Roma, Donzelli, 2008.
- Lakhous, A., Scontro di civiltà per
un ascensore a Piazza Vittorio, Roma, E/O, 2006.
- Lakhous, A., Divorzio all’islamica in
viale Marconi, Roma, E/O, 2010.
Bibliografia secondaria
- Bhabha, H.K. (ed.), Nation and
Narration, Londra e New York, Routledge, 1990.
- Bhabha, H.K., The Location of
Culture, Londra e New York, Routledge, 1994.
- Chambers, I., Dialoghi di frontiera.
Viaggi nella postmodernità, Napoli, Liguori, 1995
- Chambers, I., Curti, L., ‘Migrating modernities in the Mediterranean’,
in Postcolonial Studies,
XI.4, 2008, pp. 387-99.
XI.4, 2008, pp. 387-99.
- Chambers, I., Dialoghi di Frontiera.
Viaggi nella postmodernità, Napoli, Liguori, 1995.
- Curti, L., La voce dell’altra.
Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, Roma, Meltemi,
2006.
2006.
- Romeo, C., Narrative tra due sponde.
Memoir di italiane d’America, Roma,
Carocci, 2005.
[1] Chambers, I., Dialoghi di Frontiera. Viaggi nella
postmodernità, Napoli, Liguori, 1995, p. 103.
[2] Chambers, I., Migrazioni, modernità e il Mediterraneo,
Napoli, luglio 2002, p. 109.
[3]
Chambers, I. e Curti, L., “Migrating modernities in the Mediterranean”, in Postcolonial Studies, XI.4, p. 388.
[4] Chambers, I., 2002, p. 105.
[5] Idem,
p. 107.