05/07/13

Banana Yoshimoto, AMRITA


1994. Traduzione di G. Amitrano, 1997. Milano, Feltrinelli, 2008

Da una dichiarazione nel Postscriptum per l’edizione italiana, l’autrice espone la perplessità di “non essere riuscita a scrivere questo romanzo come avrei voluto”, ma allo stesso tempo ne difende la “spontaneità” (p. 305).

In effetti c’è un certo sapienzialismo un che saccente, che presenta verità dell’esperienza di vita come se fossero eccezionalmente profonde, un meccanismo che in altri libri di Yoshimoto è un punto di forza, perché dal quotidiano e dal minimale emerge il messaggio del vissuto filtrato attraverso il passaggio del dolore; qui le mediazioni della sprezzatura sono minori, dunque risulta qualcosa di impacciato.

In secondo luogo, c’è attenzione verso il soprannaturale, con un personaggio, Yoshio, il fratello della protagonista Sakumi, che è in grado di prevedere aspetti del futuro e in contatto coi sogni dei familiari, un po’ alla Isabel Allende. Altri personaggi hanno simili poteri, c’è un interesse inoltre per il mesmerismo. Forse questi temi derivano da una moda culturale degli anni in cui il romanzo fu pubblicato, con un qualche impaccio di affettazione.

Infine si tratta di una storia lunga, più del conciso che caratterizza Yoshimoto nella maggioranza dei libri che ha scritto.

I tre punti di cui sopra potrebbero essere visti come difetti. C’è anche chi ha visto l’intreccio riduttivo come una negatività [1].

Non ci pare che si possa parlare veramente di aspetti manchevoli, quanto di una minore scorrevolezza del solito, del resto siamo a sedici anni fa e un autore impiega il suo tempo a sviluppare una voce autorevole e un idioletto marcato. Abbiamo già avuto occasione di notare quanto invece la scrittura di Yoshimoto, proprio perché si fonda sul quotidiano, riesca a incidere in termini di modernità. Come se ogni tragedia venisse vissuta senza grandi disperazioni, ma proprio per questo, perché la vita continua, le incombenze giornaliere non si arrestano, le pubblicità continuano a bersagliare, il lavoro non si ferma, le conversazioni dopo un evento drammatico si spingono sul più e sul meno, si ha il senso della tragedia deprivato di elementi retorici.

In questo romanzo c’è un elemento in parte derivato, metaletteriaramente, forse, dal cinema americano, il suicidio di Mayu, la sorella attrice di Sakumi, schiacciata proprio dal mondo dello spettacolo e preda di un individualismo che la porta ad autodistruggersi.

La ribellione anticonformista e la rappresentazione del Giappone volto verso nuovi modelli di comportamento tra anni Ottanta e Novanta è in quello strato giovanile che, come nel caso di Sakumi, cerca qualcosa di diverso dalla tradizione pur restandovi in parte legato. Sakumi ha una storia con l’ex fidanzato della sorella. Sua madre ha divorziato due volte. E così di seguito.

Uno dei motivi ricorrenti è la memoria, rappresentata allegoricamente anche in un evento della fabula: Sakumi perde in effetti la memoria per un certo periodo di tempo a causa di un incidente.

Ma soprattutto ci sono le piccole cose, lo scorrere semplice e inafferrabile dei momenti, scandito da brevi e intense rivelazioni della natura.


NOTE

[1] Cfr. J. Briscoe nella redazione sull’“Independent” (19-7-1997). Per una recensione più neutra cfr. Il libro della settimana.


[Roberto Bertoni]