Torino, Einaudi, 2012
Con MABEL DICE SÌ, Luca Ricci fa compiere al lettore un nuovo suggestivo percorso intorno alle ossessioni, alle manie e agli inganni del protagonista stando fermo all’interno di un albergo. Se si escludono alcuni spostamenti all’esterno, nella città i cui contorni appaiono sfumati, o nel proprio appartamento, di cui solo alcuni dettagli vengono messi a fuoco, il luogo in cui il protagonista si muove è un vecchio convento. I lunghi corridoi, il chiostro, le celle potrebbero trasudare storia e storie se quel vecchio edificio non fosse stato riciclato in un hotel, e quindi destinato ai bisogni e ai fastidi spiccioli dei clienti in arrivo e in partenza, e alle incombenze del portiere.
Come nei suoi precedenti brevissimi e densissimi racconti, imprigionati in appartamenti condominiali o in villette a schiera in cui l’ambiguità dei sentimenti ha modo di manifestarsi in tutte le sue sfumature sino alle perversioni, anche qui abbiamo sotto gli occhi un atteggiamento di ambivalenza. Il sì di Mabel, in cui si sente riecheggiare il sì di Molly di joyciana memoria, e che sembrerebbe porre in primo piano la dimensione dell’eros, trova immediata risposta nell’epigrafe, nel “Preferirei di no” dello scrivano Bartleby di Melville, mostrandoci un dialogo fallito in partenza.
La disponibilità alla vita, agli incontri, al sesso è subito cancellata da un no, per quanto ingentilito dalla forma di cortesia.
Il romanzo comincia dall’ultima scena, il primo capitolo è infatti intitolato OGGI. Viene narrato un colloquio di lavoro tra il protagonista e un giovane che vorrebbe lavorare nell’albergo. Soltanto alla fine sarà rivelata l’identità del giovane e il suo legame con Mabel. Della ragazza che porta quel nome, si parla invece nel secondo capitolo, IERI, che sposta l’azione indietro nel tempo. In realtà, nonostante questo forte scarto, ciò che manca nel romanzo è proprio la scansione temporale: ci sono apparizioni e scomparse, riapparizioni e perdite definitive, ma in un presente che appare senza futuro.
Mabel è la prima persona che il protagonista incontra appena è stato assunto come portiere di notte, un lavoretto part-time che dovrebbe permettergli di finire il conservatorio e di continuare una carriera come musicista. La descrizione della ragazza (“Bruna dall’incarnato chiaro, aveva curve trascurabili. Poco seno, pochi fianchi, nessuno slancio”) la lascia sospesa in una dimensione senza contorni precisi. Il suo “sorriso degli occhi” lo attira, ma il protagonista se ne tiene alla larga come da tutte le altre persone che incontra, trovando la distanza di sicurezza nello spazio di formalità che lo separa dai clienti. Nemmeno di Nicola, l’altro ragazzo che lavora alla reception, veniamo a sapere molto, se non che ha un atteggiamento opposto al suo, di leggerezza, di scarso coinvolgimento, senza il quale sembra essere convinto che l’albergo lo ingoierebbe “in un solo boccone”.
La diligenza e la pignoleria nel lavoro portano ben presto il protagonista a rendersi conto di un’anomalia nella distribuzione delle chiavi e a scoprire che Mabel ha una relazione non solo con Nicola, ma anche con il padrone dell’hotel e con altri uomini che lavorano per l’albergo, mostrando un atteggiamento di disponibilità che, se affascina irresistibilmente i maschi, suscita invece reazioni di invidia, di aggressività e di odio nel personale femminile.
Dopo questa scoperta il protagonista comincia a essere meno preciso nel lavoro, si addormenta durante il turno di notte e, trascurando di assolvere alcuni compiti e soprattutto rinunciando al pianoforte, si mette a leggere nelle ore di lavoro la biografia di Glenn Gould. Al sentimento artistico verrà riservato uno spazio sempre più ristretto, affidato alla fine al culto di due o tre esemplari di vasi Vanini acquistati a caro prezzo e appoggiati al pianoforte, ormai utilizzato unicamente come supporto.
Anche in questo romanzo, lo scrittore pone al centro il tema della vocazione e della falsa vocazione. Come il prete de La persecuzione del rigorista, ossessionato dalla volontà di indurre in errore il contadino che non ha mai sbagliato un rigore, anche qui il personaggio principale è tutto preso da un unico scopo che in questo caso lo riguarda direttamente: la realizzazione di sé. Si potrebbe dire che i compiti cui è addetto, le mansioni e le incombenze lo assorbano completamente impedendogli di vivere l’altra parte di sé, quella che farebbe della musica l’unico scopo di vita, se l’alienazione non facesse parte della propria realizzazione:
“Fare il check-out di una comitiva era come suonare il pianoforte. Al posto dei tasti, le caselle delle chiavi. I numeri pari i tasti bianchi, i numeri dispari quelli neri. E via con la musica! Dapprima adagio, quasi in punta di piedi, e a mano a mano sempre più forte in un crescendo di chiavi e di note, raccogliere le chiavi e appenderle al gancio giusto, sciogliere le articolazioni ed eseguire una scala”.
Sembra infatti che nel presente senza futuro in cui vive, il protagonista abbia trovato una misura alla quale si adatta, una disponibilità che non supera la soglia della cordialità formale, si arresta alle apparenze, non entra nella sfera privata, e una capacità di accontentare esigenze minime senza alcun apparente coinvolgimento.
Mettendo a fuoco alcuni dettagli e sfumandone altri, suonando alcune note e trascurandone altre, o inseguendo la GOLDBERG SONATE che Glenn Gould interpreta canticchiando, lo scrittore fa partecipare il lettore a un gioco che ha al centro una fuga dalla vita che è la vita stessa, trascorsa nella breve dimensione temporale che separa un giorno dall’altro.
[Rossana Dedola]