01/03/12

Luca Doninelli, LA NUOVA ERA


[Reflections with bars. Foto Rb]


Luca Doninelli, LA NUOVA ERA.Milano, Garzanti, 2000

In questo romanzo di Luca Doninelli [1], sappiamo soltanto alla fine che si tratta di un memoriale scritto dal carcere. Un professore universitario, coinvolto sentimentalmente con la collega Marina, è intrigato da una studentessa, Chiara, che gli dà da leggere delle sue fiabe, appartiene alla sensibilità new age (parla dell’era dell’Acquario a p. 39), ha un fidanzato che la maltratta. Col pretesto di fargli leggere i racconti, Chiara intreccia una storia sentimentale col protagonista e decide di avere un figlio da lui, inizialmente senza dirglielo, poi però glielo fa sapere e ciò è legato morbosamente al fidanzato, che Chiara considera il vero padre del bambino che nascerà: crede così di poter riparare al fatto che il ragazzo aveva rifiutato di darle un figlio. Il fidanzato, figlio di Gastone, un poliziotto, la fa soffrire. Una sera la picchia e lei perde il bambino mentre si procura da sé un aborto con un ferro da calza. Il protagonista decide di uccidere il ragazzo di Chiara per punirlo dei maltrattamenti nei confronti della ragazza. Lo fa. Viene arrestato, va in carcere, scrive questo romanzo.

Si tratta di un discorso sul disamore e sulla superficialità delle relazioni sentimentali nella “nuova era”, espressione che da una parte, come si è detto, si ricollega al movimento new age, ma dall’altra è una metafora dell’epoca in cui viviamo, che l’autore pare vedere come caratterizzata da insensibilità maschile, dolore femminile, scarsezza etica.

Il romanzo punta inoltre sulla criminalità, come se di ciò oggi una narrazione non potesse farne a meno, quasi la società fosse intrisa di delitto e malavita, per cui non rappresentarla fosse lasciar fuori del quadro sociale un tratto essenziale. Doninelli la ascrive all’archetipo della modernità, quello del Dostoevskij di DELITTO E CASTIGO, ma mettendone in questione proprio il concetto di pentimento e di castigo in una società in cui il bene e il male coincidono data l’indifferenza per i valori etici:

“Delitti e castighi erano ormai una stessa cosa, non c’era più nessuna differenza tra gli uni e gli altri, e le buone azioni erano uguali alle cattive. Dostoevskij, il più grande romanziere della storia, non significava dunque più nulla, anche se io e tutti i letterati come me avevamo continuato a ritenerlo significativo: forse perché sapevamo che era stato pericoloso, anche se adesso non lo era più.

Ma se delitti e castighi sono la stessa cosa, pensai, allora la storia degli uomini non avrà più un libro dove essere scritta, perché un libro vuole giustizia, vuole la legge, vuole torti e ragioni e pretende che i torti siano riparati; oppure è un libro efferato, starà dalla parte del torto, e godrà della sconfitta di tutte le ragioni - ma anche per fare questo avrà bisogno della giustizia: per negarla, per soffocarla -” (p. 140).

Nell’indifferenza per il male, il protagonista non prova rimorso per il delitto che ha commesso: “No, nessun rimorso” (p. 129). Sul piano emotivo, è qui rappresentata l’atonia, priva di sensi di colpa, che l’autore ascrive all’invadenza del cinismo contemporaneo.

Le motivazioni stesse del delitto sono strane. L’assassino dice di non aver conosciuto in profondità e di non voler approfondire informazioni sulla sua vittima, che, spiega, non era “un personaggio negativo della mia vita, era fuori del romanzo, non era un personaggio” (p. 119). Uccide per liberarsi di quel figlio nato morto, forse: “ora che avevo ucciso, non ero più padre di nessun bambino morto” (p. 129). Abbiamo qui una patologia: compiere un atto estremo e moralmente riprovevole, un delitto, per soddisfare una pulsione egoista, negando inoltre uno dei sentimenti che in una fase storica precedente sarebbero stati essenziali, cioè il desiderio di paternità.

Un altro aspetto della presenza del delitto e della morte è allegorica: “mi resi conto [...] dell’immenso desiderio di morte che ardeva dietro la nuova era” (p. 153). Il sentimento dominante assegnato alla contemporaneità è, pessimisticamente, la tendenza verso la morte invece che verso la vita.

Sul piano estetico, Doninelli rileva che “la ‘scrittura’ e la ‘letteratura’ sono due realtà non soltanto diverse tra loro, ma opposte” e “la ‘letteratura’ è il sangue marcio della ‘scrittura’, una pretesa fedifraga di purezza, una patetica reintegrazione nella verginità, il paradiso dei frigidi, degli impotenti, dei pervertiti” (p. 82). Sembra che la vera letteratura sia, come dice per Foscolo, “l’arte di scrivere sul proprio corpo” (p. 83) (metafora che usa anche in una figurazione del suo romanzo, dato che Chiara ha l’intero corpo tatuato da cima a fondo per strano desiderio del fidanzato e quella scrittura costituisce forse un’allusione alla corporeità della vita da cui nasce la narrazione).

Alla scrittura secca del docente protagonista e alla sua repulsione conclamata per la verbosità si contrappone lo stile retorico dei racconti che Chiara gli sottopone in lettura: “Povera Chiara! Aveva voglia di parlare a quel modo: gioventù ferita, destino luminoso...” (p. 51).

Il rifiuto da parte del protagonista dei racconti di Sara è però, parrebbe, in malafede, perché:

“Forse l’origine del mio malessere stava proprio qui: quei racconti mi rendevano nota l’esistenza, sempre dimenticata, di persone incapaci di affrontare il mondo, e delle quali il mondo sapeva approfittare in modo odioso. I loro banali sentimenti, che erano tuttavia il loro unico bene, venivano derisi da qualcuno - forse tutti noi - che se ne stava appostato a spiare dietro alberi, scogli, cime di montagna, nuvole” (p. 35).

Respingere quei racconti è però, parrebbe, in malafede, forse determinato da una superiorità intellettuale, ma alle spalle degli atteggiamenti apparentemente freddi, finanche cinici del docente c’è un dolore autentico e tenuto segreto, che scatena difficoltà psicologica e ira: la madre morente e il decesso di lei nel corso del romanzo. Il dolore del personaggio di Sara e anche la sua ingenuità di scrittura sono il sottofondo che si nasconde dietro la superficie della violenza da lei subita: la tenerezza che nonostante tutto emerge anche in una “nuova era”, tanto connotata da negatività e malessere esistenziale. Due facce del sentimento contemporaneo che coesistono, in definitiva, con l’insinuazione che le crisi e le lacerazioni degli individui odierni nascano da questa convivenza difficile.


NOTE

[1] Luca Doninelli, nato a Leno (in provincia di Brescia) nel 1956, ha studiato filosofia, scrive articoli di critica letteraria e di altro genere, è consigliere d’amministrazione dell’Ente Teatrale Italiano. Tra le opere di narrativa: I DUE FRATELLI (Milano, Rizzoli, 1990) comprende I DUE FRATELLI E IL LUOGOTENENTE; LE AVVENTURE DI ANNIBALE ZUMPAPÀ (racconti per l’infanzia, Milano, Mondadori, 1994); e pubblicati da Garzanti (Milano): i racconti di LE DECOROSE MEMORIE (1994); e i ROMANZI LA REVOCA (1992), LA VERITÀ FUTILE (1995), TALK SHOW (1996), LA NUOVA ERA (1999), LA MANO (2001), TORNAVAMO DAL MARE (2004); L’INCENDIO DI NOTTE: TRENTATRÉ INQUADRATURE (Milano, Garzanti, 2009). Tra i saggi si ricordano INTORNO A UNA LETTERA DI SANTA CATERINA (Milano, Rizzoli, 1981); CONVERSAZIONI CON TESTORI (Milano, Guanda, 1993); CATTEDRALI (Milano, Garzanti, 2011). Tra i testi teatrali si segnala ITE MISSA EST (2002, regia di Claudio Longhi).


[Roberto Bertoni]