Castel Maggiore (Bologna), Book, 2003
Forse per comprendere questo libro, che condensa in poche pregnanti liriche l'essenza di una vita, anzi forse di due, occorre partire dalle parole di Grazia Livi, che l'autrice pone all'inizio, in esergo: "Ho sempre pensato a me stessa come a una donna che scrive. Il genere a cui appartengo è distinzione e orgoglio per me. E' all'interno del mio genere, e dell'esperienza del mio genere, che io trovo le parole necessarie. Non c'è altro luogo che questo."
Partiamo quindi non da quanto è posto come assoluto, ma da quanto "è sentito" come sostanziale realtà : nascita, sviluppo e voce nella linea dell'onnipotenza materna. Orgoglio e prigione?
La madre è in sé inizio, nutrimento e parola. Cosa avviene allora se quel seno è vuoto, se quel labbro è muto, se quel corpo è legnoso, se quelle braccia sono incapaci di aprirsi nell'atto della protezione?
“Madre di legno / dai seni disseccati / quanto tempo m'hai tenuta / affamata alla tua gonna”: questi sono i primi versi del libro, che colpiscono per la loro forza, per il tono violento d'accusa.
La figlia sarà mai in grado di accettare senza recriminazione e dolore questo individuo che la natura, come fa, con leggerezza, ho posto nella condizione necessaria alla quale è totalmente impari? O sempre quella figlia, anche da adulta, rimpiangerà e avrà da recriminare, dolorosamente, sul nutrimento che mai ha ricevuto?
Negare il nutrimento a un neonato è sentito come l'atto più crudele. Il ricordo del seno arido, avaro, non può essere tuttavia un vero ricordo. E, potrebbero esserci state altre donne, delle zie per esempio, di cui si scrive, in chiusura di libro, nella conversazione tra l'autrice e Merys Rizzo. Donne dal seno in ogni senso più generoso, a placare quella fame, ad acquietare il grido.
La bambina, che dentro la donna adulta è rimasta, come se della madre avesse un'idea platonica perfetta, accogliente, generosa, è delusa dal confronto, addolorata e come uccisa dal dolore per la realtà che le tocca sperimentare. La madre è sempre anche la matrigna delle fiabe. Annoiata prima dalle richieste fisiche della bimba, dalla sua fame, è pronta poi all'invidia, al castigo per la il corpo che cresce e sboccia.
“Madre di ferro / la tua scure pronta implacabile m'ha tagliato / ogni germoglio che m'avrebbe fatta /altra da te”. L'assenza d'amore materno, poiché la madre è l'universo intero, diviene odio verso se stessa, verso quella bambina malamata, ovvero richiesta d'amore infinito, inappagabile, irreale:
“Ho cara una piccola volpe
sotto la camicia
con folli unghiette mi scava la carne
non io ce l'ho messa
povera me
donna-volpe che si strazia
con mulinello di zampe feroci
si fa male
perpetuamente
sta scritto: nessuno
può separarsi da sé”.
Una storia d'amore frustrato, una favola crudele.
Un piccolo libro che ha il peso di un sasso. Rime asciutte, affilate, essenziali. Se anche questa soltanto fosse l'eredità della madre, forse sarebbe già molto: “Un'anima forte: con una spilla a balia / me l'appuntò mia madre / al bavaglino”.
Ma la storia esce dai limiti della favola. La madre da vecchia, è diventata lei la bambina bisognosa, da accudire. La storia si conclude nel più naturale dei modi, con una morte che infine riconcilia le due donne:
“Nel ricordo ho lavato
la tua morte
[…] oggi l'ho stesa pulita stillante
quasi
irriconoscibile;
Ora, mamma se vuoi
puoi prendermi in braccio”.
Questa poesia racconta esperienze personalissime in modo e con tono che le trasformano in mito, racconto in cui il lettore si riconosce. Tornando a chiudere il cerchio aperto con le parole di Grazia Livi, MATERNALE di Rossana Roberti, nella sua crudezza, nella sua stringatezza, innalza un monumento al legame matrilineare, del quale non si potrà infine dare un giudizio in base al bene o al male sperimentato, ma solo in base alla forza che si riconosce aver agito e agire in chi scrive, e, per suo tramite, attraverso la poesia, in altre nate di donna.
[Piera Mattei]