Bisogna tener presente che, “come in fondo accade per tutti i generi, ma in questo caso in forme più estese, il genere fantastico si contamina con altri, così che possiamo agevolmente distinguere nel cinema melodrammi fantastici, commedie fantastiche, avventurosi fantastici e polizieschi fantastici” [1].
La trasposizione del neozelandese Peter Jackson non rappresentò il primo tentativo di trapiantare l’imponente macchina narrativa di J.R.R. Tolkien dalla letteratura al cinema ( si pensi, per esempio, alla versione animata dell’opera datata 1978 e diretta da Ralph Bakshi). Del resto è pur vero che “il fantasy è un genere letterario meno adatto di altri a una trasposizione cinematografica” [2].
A chi continua a proporre il 1977 quale data di riferimento dell’ingresso del fantasy al cinema, con STAR WARS, proiettato in anteprima mondiale negli Stati Uniti, non si può che ribattere affermando che il film del californiano George Lucas non rappresentò altro che la perfetta fusione di fantasy e fantascienza, di una sorta di “fantasy nello spazio” lontano dal tradurre la purezza del genere fantasy stesso.
Il cinema, poi, ha da sempre proposto uno spazio istrionico e potenziale in cui si rivela possibile la coesistenza di differenti domini, codici e linguaggi tipici dell’incontro/scontro con la trasmutazione segnica che regolamenta il processo di ogni traduzione intersemiotica; in particolare riferimento all’incontro con le forme del romanzo, la traduzione cinematografica dirige l’attenzione ora verso una possibile “intensificazione” del testo scritto ora in direzione di un’irreversibile “spersonalizzazione” dello stesso. Alla luce dell’ormai abusata distinzione proposta da Roman Jakobson nel suo saggio del 1959 dal titolo “On Linguistic Aspects of Translation” [3], tra traduzione endolinguistica, interlinguistica e intersemiotica [4], non si può non constatare come il contatto tra sistemi segnici differenti anche all’interno del medesimo universo linguistico riproponga il macro concetto di “traduzione” come spazio privilegiato di riflessione linguistica a trecentosessanta gradi. È poi vero che: “La traduzione intersemiotica, cioè fra segni appartenenti a sistemi diversi, è un’operazione cui continuamente ricorriamo. Si può dire che la composizione di un segno trovi generalmente il proprio completamento nel rinvio di quel segno a un segno di tipo diverso” [5].
La traduzione per il grande schermo della trilogia tolkeniana THE LORD OF THE RINGS, rappresenta per la nostra epoca una mirabile impresa translinguistica ed intersemiotica, intesa a condensare un’opera letteraria di più di 1400 pagine in una serie di sequel che presero avvio nel 2001 e si conclusero nel 2003 [6].
Nonostante i possibili casi di deletion (necessari a questioni di spazio-tempo intimamente connesse al mantenimento del plot principale) la sceneggiatura di THE LORD OF THE RINGS costituisce una tra le più fedeli mai adattate a partire da un tessuto narrativo tanto lungo. Nemmeno le numerose trasposizioni di Dickens, Tolstoj o quelle di altri tra i più noti autori del Novecento hanno mai raggiunto un tale grado di fedeltà dei tratti salienti di un simile intreccio.
Ciò che qui proponiamo è ricomporre alcuni tra i percorsi del passaggio dal testo originario sino alla sua rielaborazione filmica.
Il primo riguarderebbe il notevole ampliamento del ruolo di Arwen, figlia dell’Elfo Elrond, interpretata sulla scena da Liv Tyler, e della sua storia d’amore con il principe Aragorn, che se nella versione stampata veniva addirittura relegata ad una delle appendici, in quella in celluloide assume invece maggiore spessore proprio in merito al viaggio di Frodo, che la principessa incontra e salva (al posto dell’elfo Glorfindel, nel film del tutto assente) dall’attacco dei potenti Nazgul. Con ogni probabilità:
“L’aggiunta delle scene con l’attrice Liv Tyler (che immancabilmente dovevano essere numerose per motivi commerciali) non ha guastato tanto, anzi, ha colto un aspetto centrale della storia che altrimenti poteva rimanere nell’ombra: il tema della morte e dell’immortalità che emerge prepotentemente proprio attraverso le drammatiche vicende della storia d’amore tra l’Uomo Aragorn (…) e la dama elfica Arwen” [7].
Arwen diviene dunque il simbolo di un popolo, quello elfico appunto, fatto per Tolkien tanto di luce che di tenebre, di magnificenza e di mistero allo stesso tempo (gli elfi sono infatti capaci di guarire e colpire l’avversario con la medesima intensità).
La complessa rappresentazione delle straordinarie virtù della popolazione elfica non è però unicamente affidata alla principessa Arwen. È a Galadriel, catartica bellezza purificatrice, che spettano i panni dello specchio dell’animo umano (l’elfo è in effetti capace di leggere nel suo specchio d’acqua magico); i suoi occhi traducono in superficie i più reconditi ed inconfessabili desideri umani, denudandoli e scarnificandoli sino alla loro aperta confessione (Boromir cede alla volontà di rubare l’Anello a Frodo, proprio nel fatato bosco di Lorien).
Il secondo illustre assente è Tom Bombadill [8]. Il personaggio – ricordiamo - era l’unico a risultare immune all’influenza negativa dell’Anello. Il suo intervento era decisivo per la salvezza dei giovani hobbits durante il loro viaggio verso Brea: per tale ragione una volta salva Frodo, Pipino e Merry, imprigionati dal Vecchio Uomo Salice (anch’esso assente tra i personaggi del film), ed un’altra, salva i mezzuomini aiutandoli ad uscire dai Tumulilande.
Di lui e di tutti gli altri personaggi presenti in questa parte del libro (ovvero una buona parte del libro I), compresi Boccadoro e Fredegario, nel film non vi è alcuna traccia.
L’enigmaticità del personaggio risiederebbe alla base della scelta di Jackson di non inserirlo nella pellicola. A metà strada tra uno sfuggente spirito della foresta - simbolo del più intimo legame e dell’identificazione con la Natura - e un protagonista senza tempo della Storia - attraverso la quale conduce il lettore sulle ali dei suoi antichissimi ricordi - Tom Bombadill rappresenta l’emblema del folclore e della leggenda, del mito e della saggezza popolare che Jackson affida, invece, il più delle volte a Barbarbero e alla “popolazione” degli alberi parlanti. D’altronde, Tolkien non fece mai mistero della sua passione naturalistica e per gli alberi in particolare: “Trees are worthy of reverence (…). They embody (more than just symbolize) both continuity with life in and of the past, in the places and times in which they have slowly grown, and faith in its future, measured in the hundreds and in some cases thousands, of years they can live to [9]”.
Anche Gandalf e l’infelice creatura Gollum non risultano immuni dalla traduzione filmica di Jackson. Mentre all’interno dei tre romanzi, Tolkien affida al mago il compito di ristabilire costantemente il ruolo di ognuno dei protagonisti all’interno del progetto storico cui stanno prendendo parte, nel film, quest’ultimo si trova ad incidere più accidentalmente sulle coscienze dei nove componenti della Compagnia.
Alla maniera di un più classico Merlino, Gandalf riusciva, infatti, ad apparire e scomparire qua e là nella storia, rispondendo ad un’ormai proverbiale puntualità provvidenziale; il rapporto d’interdipendenza tra Gandalf e Frodo ripercorre, quindi, i sentieri della relazione “formativa” che aveva già marcato le dinamiche di Merlino ed il giovane Artù.
La storia cinematografica di schizofrenici alle prese con una doppia (o multipla) personalità traduce la sempre ambigua parabola del doppio, che all’interno della trilogia tolkeniana rintraccia in Gollum-Smeagol un bagaglio di trucchi ed illusioni che al cinema esplodono nella creazione computerizzata della creatura [10].
Nelle mani di Jackson, Gollum - nient’altro che un’infinita massa di pixel sul video di un computer - diventa il vero trionfatore della saga. L’arco drammatico del personaggio venne infatti dilatato: le tre personalità dell’ex hobbit - Gollum il “cattivo”, Smeagol il “buono” e Smeagol il “cattivo” sul Monte Fato - ormai corrotto irrimediabilmente dal possesso dell’Anello prolungatosi per oltre cinquecento anni, rappresentano i reali protagonisti specialmente dell’ultimo episodio della trilogia, THE RETURN OF THE KING, rivelando le tappe evolutive del classico passivo-aggressivo, la cui principale funzione risiederebbe nell’incunearsi tra i maggiori sensi di colpa dei suoi interlocutori.
La Nuova Zelanda di Jackson diventa poi il perfetto doppio della magica ed avventurosa Terra di Mezzo: la riproduzione delle tre colonne dei Re, gli Argonath, imponenti e maestosi insieme ai boschi di Lorien, al fosso di Helm, ai campi del Pelennor, hanno garantito allo spettatore la stessa intimità e la magia affioranti dalla lettura del libro.
Al rapporto poi tra Padron Frodo ed il fido giardiniere Sam, Jackson riversa molta attenzione. Pur “epurandone” i baci, le carezze e le profonde professioni di affetto che tradizionalmente legavano i cuori dei due hobbits [11], il movimento verso il grande schermo ripropone un legame che ha nulla o poco a che fare con l’ottica tradizionale di “servo e padrone” ma che molto, invece, rimanda all’intima e misteriosa interdipendenza tra “eroe e scudiero”, alla maniera di Don Chischiotte e del fido Sancho Panza, altalena penzolante tra follia e normalità, fantasia e realtà, natura e cultura.
L’affaire cinematografico dell’anello non può che concludersi con Christopher Lee nei panni di Saruman, saggio stregone decaduto per corruzione del Male. Proprio Lee fu l’unico tra i protagonisti della pellicola ad incontrare Tolkien in persona, in un pub della campagna inglese, durante gli anni della gioventù, senza però riuscire a trovare il coraggio di rivolgergli la parola.
Con la stessa intensità con cui Tolkien aveva rimesso i due potenti Istari (Gandaldf e Saruman) su di un’unica strada ed in lotta per il medesimo risultato, Jackson riesce a dar vita a due irresistibili vegliardi cinematografici che il popolo degli appassionati del genere faticherà a dimenticare: mentre Saruman, impadronitosi più di tutti gli altri delle astuzie del nemico, finisce col rimanerne irretito e a desiderarle per sé, Gandalf, al contrario, vede accentuarsi, nella volontà del regista, il suo passaggio da the Grey, stregone vagante, ramingo senza fissa dimora e dalla tunica rattoppata, a the White, ovvero allo stato di stregone guerriero, stratega delle vittorie finali, meno ironico ma più severo e deciso.
La rivisitazione di un mito come quello dell’anello del potere, intimamente connesso all’immagine del fanciullo divino messo a dura prova nella delicata fase dell’esistenza dedicata al divenire, partecipò comunque di un circuito che è quello commerciale governato dai mass-media, in cui “anche quando i mass-media diffondono i prodotti della cultura superiore li diffondono livellati e ‘condensati’ in modo da non provocare alcuno sforzo nel fruitore (…). In ogni caso anche i prodotti della cultura superiore vengono proposti in una situazione di completo livellamento con altri prodotti di intrattenimento” [12]. Secondo lo stesso Eco si tratterebbe comunque però di “un rinnovamento stilistico che spesso ha costanti ripercussioni sul piano delle arti cosiddette superiori, promuovendone lo sviluppo” [13].
Casi così eccellenti di traduzioni intersemiotiche (ripensiamo alle celebri rivisitazioni di Kubrick della LOLITA di Vladimir Nabokov, SHINING di Stephen King, BARRY LINDON di W.M. Thackeray, EYES WIDE SHUT da DOPPIO SOGNO di Schnitzler, o a quella de IL DISPREZZO di Alberto Moravia per opera di Jan-Luc Godard, sino alla MADAME BOVARY di Claude Chabrol, solo per citarne alcune tra le più famose) [14], che hanno incontrato le ragioni del mercato culturale scuotendone comunque le dinamiche, affidandosi alla sempre intrigante dimensione teorica delle relazioni tra le arti, partecipano a pieno titolo ai più moderni cultural studies che rintracciano ancora nella traduzione un elemento di misteriose equivalenze linguistiche e di interdipendenza tra le arti capaci di tradurre la comunicazione.
NOTE
[1] R. Campari, CINEMA: GENERI, TECNICHE, AUTORI, Milano, Mondadori, 2002, pp. 89-90.
[2] F. La Polla, autore dell’interessante introduzione ad una delle poche trattazioni monografiche sull’argomento, IL CINEMA FANTASY, di C. Aciuti, R. Esposito, Roma, Fanucci, 1985, p. 7.
[3] R. Jakobson, ON THE LINGUISTIC ASPECT OF TRANSLATION, in SAGGI DI LINGUISTICA GENERALE, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 56-64.
[4] Ibidem, p. 53.
[5] A. Ponzio, TESTO COME IPERTESTO E TRADUZIONE LETTERARIA, Rimini, Guaraldi, 2005, p. 50.
[6] Jackson diresse tutti e tre gli episodi distribuiti dal colosso della New Line Cinema.
[7] A. Monda / S. Simonelli, GLI ANELLI DELLA FANTASIA, Milano, Frassinelli, 2004, p. 258.
[8] A Tom Bombadill Tolkien aveva, invece, dedicato l’intera raccolta dal titolo THE ADVENTURES OF TOM BOMBADILL AND OTHER VERSES FROM THE RED BOOK, Londra, Allen & Unwin, 1962; trad. it, LE AVVENTURE DI TOM BOMBADILL, Milano, Bompiani, 2000. Il volumetto era destinato ad introdurre al suo pubblico di lettori uno tra i personaggi più emblematici della lore tolkeniana. Composta da sedici componimenti (tre dei quali - i numeri 5,7,10 - rintracciabili anche all’interno della trilogia) la raccolta rappresentò un vero e proprio esperimento di versificazione, dai colori della farsa e dello spirito burlesco. Il personaggio che diede il nome all’intero volume - picaresco abitante dei boschi - popola l’intrigante regno di Feeria, insieme a Goldberry (Boccadoro), The Willow-Man (L’uomo salice), The man in the Moon e numerose altre creature fantastiche.
[9] P. Curry, DEFENDING MIDDLE-EARTH: TOLKIEN, MYTH AND MODERNITY, Londra, Harper Collins, 1997, p. 67.
[10] Il personaggio di Gollum venne ricostruito sulla base di una somiglianza fisica con l’attore e doppiatore Andy Serkis, la cui voce e le cui movenze inchiodarono milioni di spettatori dinnanzi alla maschera di pixel alla ricerca del suo ormai proverbiale “tesssoro”.
[11] Sam arriva a pronunciare: “I love him” riferendosi a Frodo nel IV libro di THE TWO TOWERS.
[12] U. Eco, APOCALITTICI E INTEGRATI. COMUNICAZIONI DI MASSA E TEORIE DELLA CULTURA DI MASSA (1964), Milano, Bompiani, 2003, p. 37.
[13] Ibidem, p. 45.
[14] Per un più ampio riferimento alle relazioni tra letteratura e cinema si rimanda all’intero volume di N. Dusi, IL CINEMA COME TRADUZIONE. DA UN MEDIUM ALL’ALTRO: LETTERATURA, CINEMA, PITTURA, Torino, UTET, 2006.