25/03/10

Cristina Cona, LA SELVA OSCURA DELLA TRADUZIONE


[Forest facing snow. Foto di Marzia Poerio]


Con il suo impressionante concatenarsi di equivoci e coincidenze, la traduzione del bel romanzo storico di Hella Haasse, HET WOUD DER VERWACHTING. HET LEVEN VAN CHARLES D’ORLÉANS, è senza dubbio una delle più travagliate in cui sia dato imbattersi. Il libro venne pubblicato nel 1949 in Olanda dalla casa editrice Querido; l’autrice, poco più che trentenne, aveva già riscosso un notevole successo con OEROEG, storia ambientata nella sua nativa Indonesia. Questo suo secondo lavoro, che raccontava la vita di uno dei personaggi più interessanti del tardo Medioevo francese, poeta, diplomatico e uomo politico che passò venticinque anni in esilio in Inghilterra dopo la battaglia di Agincourt, fu anch’esso molto lodato dai critici e - fatto rarissimo trattandosi di un libro in lingua straniera - recensito (in termini molto lusinghieri) dal “Times Literary Supplement” nel 1950.

In quello stesso periodo, a Chicago, un impiegato delle poste di nome Lewis C. Kaplan iniziava ad apprendere l’olandese. Kaplan era appassionato di letteratura: ad interessarlo in particolar modo era il progetto di tradurre opere già note ed apprezzate nel loro paese d’origine ma non ancora apparse in inglese (il suo lavoro gli permetteva di procurarsi facilmente riviste europee e leggere recensioni letterarie); aveva già al suo attivo la traduzione di tre romanzi portoghesi. Nel 1953, quando le sue ricerche si andavano orientando sulla letteratura olandese, si era imbattuto in diversi articoli elogiativi sul romanzo della Haasse. La trama stimolò la sua curiosità: egli prediligeva le narrative di ampio respiro e di argomento storico, e HET WOUD DER VERWACHTING faceva esattamente al caso suo.

Kaplan scrisse dunque immediatamente a Querido offrendo i propri servizi come traduttore, e gli editori credettero di riconoscere nel suo nome quello di un profugo tedesco che aveva lavorato un po’ di tempo per loro prima di emigrare in Inghilterra; di conseguenza passarono la lettera all’autrice dando parere favorevole. Ricevuto l’accordo della Haasse, e ignaro di essere stato scambiato per un omonimo, Kaplan si mise al lavoro. Tradurre HET WOUD DER VERWACHTING non era un’impresa da poco: si trattava di un testo molto lungo, dal vocabolario ricco e denso, contenente oltretutto numerosi termini propri del mondo medievale e perciò di uso non comune; egli cercò di colmare al meglio le proprie numerose lacune (ricordiamo che la sua conoscenza dell’olandese non era molto approfondita) consultando i dizionari e le grammatiche che gli capitavano sottomano e passando sul testo la maggior parte delle ore libere.

Nel 1958, dopo aver completato la prima bozza della traduzione ed avere riveduto in maniera per lui più o meno soddisfacente le prime 150 pagine, Kaplan moriva improvvisamente; sconvolta e traumatizzata, la moglie prese tutti i suoi appunti (sui quali non figuravano né il titolo dell’opera tradotta, né il nome dell’autrice) e li mise in una valigetta che venne sistemata in uno sgabuzzino dove giacque dimenticata da tutti per oltre vent’anni. Nel frattempo Hella Haasse, pur avendo pubblicato nuovi romanzi e trovandosi assorbita da altri impegni, non aveva dimenticato che qualcuno, al di là dell’oceano, stava traducendo il suo libro, e ogni tanto le veniva fatto di chiedere a che punto era arrivato il lavoro; si rendeva però conto delle difficoltà che il testo comportava e, per delicatezza, non osò mai “importunare” Kaplan.

Nel 1979 un incendio scoppiava nell’appartamento della famiglia Kaplan e, successivamente all’intervento dei pompieri, la vedova e il figlio, Kalman, dovettero fare pulizia anche negli angoli più reconditi. Fu così che Kalman Kaplan scoprì la valigetta; il manoscritto era inzuppato e si decifrava a fatica, oltre ad essere, come si è detto, privo di indicazioni che permettessero di individuare l’autore e il titolo, ma la sua vista risvegliò in lui il ricordo del padre chino sui libri, intento a sfogliare dizionari, sera dopo sera. Kalman asciugò e riordinò i fogli come meglio poteva, in attesa di chiarire il mistero; e qualche tempo dopo sua madre si imbatteva in un pezzetto di carta recante il nome “Hella Haasse”. Una telefonata alla Library of Congress permetteva allora ai Kaplan di ottenere il titolo del romanzo e il nome dell’editore olandese, con il quale si misero subito in contatto. Proprio in quel periodo, però, Querido era in fase di riorganizzazione e molti redattori avevano cambiato posto; contemporaneamente Hella Haasse era andata a stabilirsi in Francia. Per tutti questi motivi i Kaplan ricevettero una risposta, e successivamente il permesso di pubblicare la versione inglese previa approvazione dell’autrice, solo nel 1982. Nel frattempo Kalman aveva provveduto ad ottenere il copyright sulla traduzione di suo padre (con il titolo “The Forest of Expectations”) e, una volta ottenuto il beneplacito di Hella Haasse, si rivolse ad Academy Chicago Publishers, una casa editrice che aveva scoperto casualmente leggendo un articolo sulla Chicago Tribune.

Anita Miller, proprietaria di ACP, si vide così recapitare un malloppo di 1100 pagine quasi tutte manoscritte, in cattivo stato e di difficile lettura, ma le bastò leggere le prime settantacinque per convincersi della validità dell’opera e firmare il contratto. Unico problema: il testo evidentemente non poteva restare così com’era, e lei non conosceva per nulla l’olandese. Intraprese quindi una revisione “a senso” del lavoro di Kaplan (solo in una fase successiva fece ricorso ai dizionari), mandando la traduzione, un centinaio di pagine per volta, a Hella Haasse con la richiesta di chiarimenti e correzioni; grazie alla sua buona conoscenza dell’inglese la scrittrice ritradusse anzi da sé alcune parti del testo. Successivamente Anita Miller, in parte aiutata da un’amica olandese, rivedette da cima a fondo tutti i brani il cui senso le risultava ancora poco chiaro, e infine, nel 1989, la stessa Haasse si recò a Chicago per verificare tutta la traduzione riga per riga. Commenta Anita Miller nella prefazione all’edizione americana: “Thus ... both Hella Haasse and I are satisfied that the following pages offer a faithful English version”.

Restava il problema del titolo: l’autrice non era contenta di quello scelto da Kalman Kaplan, traduzione letterale dall’olandese che non corrispondeva al senso da lei conferitogli in origine. “Het woud der verwachting” era infatti a sua volta la traduzione dell’espressione francese arcaica “la forest de longue attente”, tema allegorico assai frequente nella poesia cortese: non si trattava dunque di “expectations”, ma dell’azione di attendere. Del resto nel corso del libro si parla più volte della “Forest of Long Awaiting”, formulazione considerata però un po’ pesante per un titolo. La soluzione venne infine trovata dal figlio di Anita Miller, specialista di letteratura rinascimentale, che propose il dantesco “In a Dark Wood Wandering”, con grande soddisfazione dell’autrice. Il libro venne così infine pubblicato, una quarantina d’anni dopo che Lewis Kaplan aveva intrapreso il lavoro di traduzione.

Realizzata, per un malinteso, da un anglofono con nozioni frammentarie dell’olandese, smarrita in circostanze più che insolite, riveduta a decenni di distanza da un’altra anglofona completamente a digiuno di questa lingua, e infine corretta da due persone la cui lingua madre era quella di partenza e non quella di arrivo ... segnata insomma fin dall’inizio da confusione e smarrimento, e portata avanti fra mille peripezie, questa traduzione non poteva portare un titolo più adatto.


Fonte: Anita Miller, INTRODUCTION, IN A DARK WOOD WANDERING, Chicago, Academy Press, 1989.