15/10/08

Ivano Mugnaini, GLI OCCHI DEL BUIO


[Infrared view of eye at night. Foto di MarziaPoerio]


La luce rovina la carta. La fa scurire. La offusca.

Non è paradosso quindi, non è follia, leggere CUORE DI TENEBRA al buio. Sfogliare le pagine con dita frementi, come un bambino che divora, sotto le coperte, le parole di un’orrida fiaba. Sfogliare le pagine per scoprire cosa e dove è la tenebra. Non è follia. O, se lo è, ne ho sete e fame. È qui che sono giunto. A questa desolata terra di nessuno mi ha condotto la strada. Leggere al buio l’incubo in forma di metafora di Joseph Conrad. Per mantenere un minimo di luce, di contrasto. Il bianco, il nero, la distinzione, lo scarto. Scacchiera di una partita senza inizio né fine. Difendiamoci. Salviamo il re e la regina, sacrifichiamo i pedoni. Difendiamoci. Da noi stessi. Visto che nessuno ci aiuta. Se davvero è così.

Leggere ed ascoltare, ad occhi e orecchi spalancati, senza riuscire a smettere un solo istante, il vicino di casa. I rumori, i silenzi, gli assalti al mio corpo, reale, di carne e paure. Non l’ho mai visto. Non so se è bianco, nero, rosso, alto o basso, grasso o magro, se ha uno sguardo astuto o innocente. C’è, in questa casa dalle finestre sbarrate, la certezza della civilizzazione: il microonde, la radio-sveglia, il computer. La pazienza, santificata, esaltata in mille ore di lezioni. Già. Ma lui è là. Non si ferma. Mi scruta, logora come un sarcastico dentista. Tenace come un morso, un conato di vomito senza sbocco, senza la gioia di un respiro ampio e pulito.

Ho provato a scrivere, a dare misura alla corsa affannata della mente. Le parole però sono scure, selvagge. Ti scagliano contro frecce al curaro dal fitto della boscaglia. Sono nere, le parole. Anche se fingi che l’inchiostro sia azzurro. Chiare e certe sono solo le ipotesi, le scommesse. Il resto oscilla nell’aria impalpabile.

È là fuori. Avido senza audacia e crudele senza coraggio. Là, nei suoi territori, dentro le sue fortificazioni. Incrollabile nell’etica del lavoro di demolizione. Strappa da me l’avorio della gioia, lo accumula per pura ingordigia, senza altro scopo né funzione. Forse vuole sentirsi un dio. Lo tiene vivo tuttavia la più umana e misera delle condizioni: la meschinità dell’orgoglio.

Dovrei dialogare con lui. So che è questo che desidera. Il senso del mio viaggio in fondo è questo. Salvare lui per salvare me. Ma resto inchiodato qui, avvinto da una trama che non varia, priva di eventi come un fiume limaccioso. Neppure le frecciate degli indigeni che continuano a sibilare ad un palmo dalle tempie sembrano vere. Solo il tragitto esiste. Il moto, reale o apparente che sia.

Kurtz è un uomo notevole. Me lo hanno detto e confermato fino alla nausea. Certo. Tutti lo siamo. Ma notevoli per chi? Quali occhi, quale logica? Du calme, du calme. Adieu. È questo l’accorato lasciapassare dei saggi e dei dottori. E il mio viaggio può riprendere. Atto alla missione, abile arruolato, pronto a muovere verso un continente ancora da esplorare.

Devo prendere il suo posto. Sostituire Kurtz in tutto e per tutto, diventare il suo perfetto alter-ego. Il solo orrore di cui sono certo, ora, è questo: somigliargli. Arrivare ad essere identico a lui. C’è un fascino nell’abominio. Ancora più forte però è il desiderio di fuggire lontano.

“Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo/ tu sola puoi salvarmi/ tu sola e te lo scrivo”. Borbotto questi brandelli di note tra riso e tensione. Anche una canzone può servire, adesso. Se solo sapessi a chi dedicarla. Io, Cyrano scalcagnato che non può vantarsi neppure di essere cadetto di Guascogna, cerco una musa, un’ispiratrice. Una Rossana ideale: la verità, la speranza, l’amore magari.

Lui è già fidanzato. Ha trovato qualcuno che lo accetta com’è. Anch’io, come Marlow, mentirei alla sua fidanzata se mi chiedesse di parlarle del suo amore. Inventerei una menzogna qualunque. Più benevola, in fondo, dei denti acuminati della realtà. Kurtz è la solitudine, affermano. Ed è la solitudine che lo ha ridotto così. No. Lui è l’orrore che sconfina nel mio.

Bussa alla porta. Agli stipiti di questa sera quieta e terrificante. È gelido l’appartamento, il marmo delle scale, il fruscio e il battere dei passi. Odori crudi, carne putrefatta. Persino i profumi più familiari, il caffè, le verdure, il dopobarba, trasudano linfa di morte.

Vuole che io parli. Che dia fiato e respiro al mio orrore per lui. Che gridi il mio odio, nutrendolo, dandogli corpo. Per lui io sono il nemico. Vorrebbe che esclamassi lo stesso con identica chiarezza. Non ci riesco. Io, per salvarmi, continuo ad adorare la verità del mio silenzio. L’illusione, assurda e vitale, di non averlo mai visto né sentito.

Nego. Resto sordo e cieco. Anche al suo urlo e al coltello che avanza nel buio. La lama poggiata sulle vene del collo.

La bugia più grande? Dire che Kurtz non esiste. O che esiste. Che differenza fa? Niente ha sostanza e dimensione nella tenebra assoluta. Niente. E il contrario di niente.

“Che ne è della menzogna?” - si chiedeva il mio amico James Clifford. La domanda rimane, persiste. Anch’io, come Marlow, all’inizio ho provato repulsione per la bugia, ed ora, alla fine di tutto, mi ritrovo a mentire per evitare la catastrofe. O a riflettere, come Clifford, sul fascino esile e letale di un’affermazione: I frutti puri impazziscono.

Forse è poesia, forse logica, forse niente. Il rebus è senza soluzione, resta oscuro il punto cardine, il cuore della questione: se il puro sia io oppure lui. Se è vero che la pazzia è la sua essenza esclusiva, allora, di conseguenza, lo è anche la purezza. Perlomeno la purezza putrida, l’integrità della follia. A me, adesso, rimane il sangue sulle vene del collo, ancora caldo, ancora vivo. E un pensiero, l’idea di sempre: “siamo esclusi dalla comprensione di ciò che abbiamo intorno. Il significato non è all’interno. È fuori. Un alone di foschia reso visibile a tratti da riflessi spettrali”.

La verità interiore è nascosta.

Per fortuna. Per fortuna.