25/10/08

Annalisa Bonomo, TRADURRE LA FANTASIA RIMANENDO IN PIEDI: PER UNO SPINOSO PROBLEMA DELLA TRADUZIONE

“Poco si è scritto finora sulla traduzione della letteratura infantile. Per questo non possiamo che invitare gli specialisti a parlarcene [1].”

Con queste parole George Mounin nell’ormai lontano 1965 concludeva il suo breve capitolo (di sole due pagine) dedicato alla traduzione dei libri per bambini, contenuto in TEORIA E STORIA DELLA TRADUZIONE.

Rilevando come, in effetti, parlare di traduzioni per i bambini sia: “pieno di problemi specifici e di insospettabili difficoltà” [2], Mounin inaugurava, in realtà, un dibattito che non si è per nulla attenuato e che fa del tradurre la fantasia ed in genere ogni tipo di opera di stampo fantastico, uno spinoso problema intimamente collegato al ruolo educativo di qualunque testo letterario, a volte specificatamente, altre meno, diretto ad un pubblico giovane.

La difficile risoluzione di un problema che vede fronteggiarsi sempre nuovi “apocalittici” e “integrati” (per saccheggiare ancora una volta una terminologia cara a Umberto Eco) favorevoli e contrari alle potenzialità dell’atto traduttivo, risiede, con ogni probabilità, nell’impossibilità di delimitarne lo spazio, specie in relazione agli scritti diretti ai ragazzi, costantemente in bilico tra lingua scritta e lingua parlata, parole e segni, immagini e illustrazioni, luci e colori, verità e finzione.

Mai come in questo caso il problema delle definizioni si è fatto così imponente e a tratti fuorviante. Scrivevano Jenny Williams e Andrew Chesterman a tale proposito:

“Are you dealing with literature (designed to be) read by children or to children? What age group(s) do you mean? Does ‘literature’ include only books or could it also include TV programmes, films and softwares? Children’s literature spans many genres – from poems and fairytales to fiction and scientific writing. It is also expected to fulfill a number of different functions, e.g. entertainment, socialization, language development as well as general education” [3].

La ricerca di tali definizioni si complica nello stesso momento in cui il testo letterario generalmente indirizzato ai più giovani viene messo in relazione con un campo di studi sempre più vasto ed intricato come quello dei Translation Studies.

In effetti, da Cicerone, Orazio e San Girolamo, per continuare con la traduzione sacra di William Tyndale (del 1525) e quella poetica di George Chapman (traduttore di Omero), sino all’ormai proverbiale metafora di John Dryden e del suo traduttore-pittore ritrattista, alle “aggiunte” johnsoniane, alla creazione mistica tipica dei romantici, alla “sottolingua” di Schleiermacher, allo specialismo di Matthew Arnold, per approdare alla Babele steineriana del XX secolo, i riferimenti alle discipline coinvolte in un processo tanto antico come quello traduttivo, costantemente mossosi all’insegna della distinzione: “between word for word translation and sense for sense (or figure for figure) translation” [4], sono inevitabilmente cresciuti, registrando il passaggio da una prominenza della linguistica ad un vero e proprio embodiment di aspetti culturali ed ideologici che hanno abbracciato la traduzione da sempre diverse angolazioni.

Ne vien fuori, quindi, un vero e proprio guazzabuglio di stimoli e di sollecitazioni atti a escludere ogni tentativo tassonomico definitivo.

Nonostante ciò, la collocazione periferica della letteratura fantastica ed infantile in particolare, rimette in discussione nella sua controparte tradotta, le costanti problematiche legate alla questione del “canone”.

Notava Susan Bassnett in proposito:

“For there is no universal canon according to which texts may be assessed. There are whole sets of canons that shift and change and each text is involved in a continuing dialectical relationship with those sets. There can no more be the ultimate translation than there can be the ultimate poem or the ultimate novel, and any assessment of a translation can only be made by taking into account the process of creating it and its function in a given context” [5].

Le parole “libertà” e “tradimento” acquisiscono quindi nuove valenze e significati scientifici, dei quali i moderni traduttori devono essere pienamente consapevoli.

È al centro di un gioco così complesso come quello delle connotazioni, delle metafore e dei neologismi che spesso si colloca la produzione di un tipo di letteratura diretta all’infanzia, ma è altrettanto vero che:

“The people who translate science fiction and fantasy, first of all, know these genres and they also need to know the special vocabulary related to science and technology, mainly to astronomy. This is, again, still not enough. They also have to be the exceptionally creative ones, as these books are full of names for things that do not exist in reality, as they are only the product of a writer’s imagination. They deal with everything from food names to names belonging to different life forms, places, objects, military ranks or even names of drinks or institutions” [6].

Già Gote Klingberg, nel 1986, nel tentativo di analizzare “la letteratura per l’infanzia nelle mani dei traduttori”, suggeriva la medesima prospettiva, proponendone una possibile risoluzione in quella che lo stesso definì “cultural context adaptation”; è di tale ampliamento del concetto stesso di “adaptation” che lo studioso svedese individua dieci possibili categorie, tra le quali spiccano i riferimenti letterari, le lingue straniere all’interno del TS, i riferimenti alla mitologia e alla ritualità popolare, per continuare poi con i contesti politici, storici e religiosi, con i cibi, gli usi e costumi, i giochi, la flora e la fauna, i nomi personali e quelli geografici, i nomi di animali e di cose, sino a considerare le unità di peso e di misura [7].

Posta la variabilità di un procedimento traduttivo come quello teorizzato da Klingberg, nel quale trovano ampia applicazione concetti come rewording, explanatory translation, footnotes, simplification, substitution, sino ai più drastici casi di deletions e di localizations, i recenti studi sulla traduzione, che hanno visto i paesi finnici ricoprire (e allo stesso modo finanziare) spesso un ruolo primario in seno alla ricerca scientifica in argomento, hanno in qualche modo registrato uno spostamento verso direttive maggiormente descrittive.

Si pensi tra tutti, allo studio portato a termine nel 2000 da Riitta Oittinen, dal titolo TRANSLATING FOR CHILDREN [8].

Già nel suo I AM ME – I AM OTHER: ON THE DIALOGICS OF TRANSLATING FOR CHILDREN, del 1993, Oittinen inaugurava una prospettiva dichiaratamente dialogica (di matrice bachtiniana) all’interno della quale la traduzione per l’infanzia guadagnava a buon diritto uno spazio all’interno delle intricate teorie polisistemiche. È a partire dai numerosi elementi para e meta testuali di cui il ritmo finale dei testi risente inesorabilmente che è possibile ruotare intorno alla ridefinizione, o meglio, ad una “contestualizzazione” del concetto di adaptation, dal quale quasi ogni studio sulla letteratura infantile e sulla traduzione non riesce a prescindere.

Verosimilmente “influenzata” e in qualche modo “rassicurata” da una precisa fascia d’età alla quale la sua ricerca si rivolge (quella dei bambini intorno ai sette anni e alla letteratura loro indirizzata), l’analisi di Oittinen condivide in parte, alcune delle posizioni manifestate da Klingberg, quali ad esempio, la necessità di palesare le eventuali abbreviazioni del testo originale, ma ne diverge, allo stesso tempo, in merito alla presunta invisibilità del traduttore, auspicata, invece, dallo stesso Klingberg.

Secondo la studiosa finlandese, insomma: “Klingberg seems to assert that translators must be visible when adapting, when abridging, but invisible when translating” [9]. Con tali affermazioni, Klingberg sembra effettivamente condannare il traduttore al silenzio, sebbene consideri necessario palesare, ove possibile, al lettore le sensazioni e la conoscenza di un’esperienza straniera, di un incontro internazionale, dei quale la traduzione diventa la manifestazione oggettiva.

La posizione di Oittinen affonda, invece, le sue radici più intime, all’interno di un’intelligente rivalutazione dell’immagine stessa del bambino, contemporaneamente soggetto e oggetto di una possibile critica ermeneutica, alla stessa maniera di quanto accaduto a Zohar-Shavit, anch’essa notevolmente interessata alla comprensione della letteratura infantile: “not as an assemblage of elements existing in a vacuum but as an integral part of the literary polysystem” [10].

Proprio in proposito all’immagine del bambino, Oittinen scrive: “Child image is a very complex issue: on the one hand, it is something unique, based on each individual’s personal history; on the other hand, it is something collectivized in all society [11]”.

È in qualche maniera intorno alla questione della “manipolazione” che si muove anche lo studio di Zohar Shavit, del quale Oittinen risente con ogni probabilità, e che quest’ultima prende particolarmente in considerazione, specie in relazione alla comparazione delle due differenti versioni di CAPPUCCETTO ROSSO per mano di Perrault (nel 1697 con il titolo LE PETIT CHAPERON ROUGE) e dei fratelli Grimm (nel 1857 con il titolo RATKÄPPCHEN) condotta proprio dalla studiosa israeliana.

Uno degli snodi più interessanti dello studio di Shavit ruota, infatti, intorno al tentativo di contestualizzare il concetto di adaptation all’interno di un’analisi della traduzione che tenga conto della costante presenza di veri e propri taboos all’interno della narrativa per ragazzi, in funzione dei quali il traduttore opererà le scelte di maggiore importanza.

Ma facciamo un esempio. Shavit si è spesso addentrata nello studio dei taboos linguistici e di contenuto, presenti in numerosi testi, divenuti solo in seguito, in qualche modo child-oriented, ed è allo studio dell’opera di Swift, ad esempio, che dedica alcune riflessioni molto interessanti. Leggiamo:

“As an example, note the scene of Gulliver saving the place from the fire by urinating on it. In the original text, the scene of extinguishing the fire is used to advance the plot as well as to integrate satire into the story. The Lilliputians reveal their ingratitude by not thanking Gulliver for saving the palace. On the contrary, they blame him for breaking the law of the kingdom and later use it as an excuse for sending him away. The whole scene is clearly used in order to realize the arbitrariness of the laws and the ingratitude of the people. However, most translations could neither cope with Gulliver extinguishing the fire by urinating on it (an acceptable scenario in a children’s book) nor with the satire of the kingdom and its laws” [12].

Shavit continua, poi, l’analisi dell’episodio dell’urina, facendo menzione di alcune tra le scelte alternative all’intera soppressione della scena, che hanno visto una ben più tradizionale acqua o un grosso soffio di fiato sostituire la certamente più divertente urina di Gulliver.

Qualcosa rischia, quindi, di “perdersi” lungo la strada, in favore di un mantenimento d’integrità del plot che non sempre coincide con quello che potremmo definire d’“integralità”. La condizione illustrata dalla studiosa israeliana ben si inserisce nella sempre più intricata questione della censura, o meglio ancora di quello che Judith Saltman in un articolo del 1998 definiva: “censoring the imagination” [13], e Oittinen invece: “censoring children’s experience of literature” [14].

Seppure in ognuno degli studi da noi sopracitati (tanto in quello di Klingberg e ancor più in quelli di Shavit e Oittinen) la tematica strettamente connessa al taboo sia ampiamente presa in analisi, è altresì necessario constatare il moderno mutamento di standards di riferimento in relazione ad ogni tradizione fiabesca. I comuni episodi di sesso, violenza, defecazione, orinazione, cattive maniere e così via, hanno lasciato ormai spazio a nuovi scenari. Un esempio tra tutti, la recentissima pubblicazione di MY BEAUTIFUL MOMMY, del Dr. Michael Salzhauer, chirurgo plastico americano che ha fatto della chirurgia estetica il nuovo terreno di un’avventura, in qualche modo, fantastica, distribuita e indirizzata specificamente a quelli che in America sono ormai definiti botox-babies e freeze-face generation [15], ovvero un’intera generazione di minorenni o di appena ventenni, schiavi di collagene e dermoabrasioni.

È evidente, quindi, come ogni moderno débat inerente i rapporti tra censura, adattamento, manipolazione, ricomposizione e traduzione non possa pretendere di muoversi lungo ottiche binarie e tassonomie prestabilite; partecipa, al contrario, di una dimensione dialogica, fortunatamente destinata a non avere mai fine, e sintomo di un fascino “babelico” per il diverso, il lontano, o semplicemente per quello che Antoine Berman definisce: “the experience of the foreign” [16].


NOTE

[1] Cfr. G. Mounin, TRADUCTIONS ET TRADUCTEURS, trad. di S. Morganti, TEORIA E STORIA DELLA TRADUZIONE, Torino, Einaudi, 1965, p.152.

[2] Ibidem, p. 150.

[3] Cfr. J. Williams e A. Chesterman, THE MAP: A BEGINNER’S GUIDE TO DOING RESEARCH IN TRANSLATION STUDIEs, Manchester-Northampton, St. Jerome Publishing, 2002, p.12.

[4] Ibidem, p. 44

[5] Cfr. S. Bassnett, TRANSLATIOPN STUDIES, TROVARE BIB, pp. 10-11.

[6] Cfr. I. Hegedus, TRANSLATING FANTASY AND SCIENCE FICTION: THE PEAK OF CREATIVITY, 2004. L’articolo è consultabile online all’URL: http://www.sfcrowsnest.co.uk/sfnews2/04_oct/news1004_3.shtml

[7] Per ogni riferimento al concetto di cultural context adaptation, si veda, G. Klingberg, CHILDREN’S FICTION IN THE HANDS OF THE TRANSLATORS, Malmö, Liber/Gleerup, 1986.

[8] Cfr. R. Oittinen, TRANSLATING FOR CHILDREN, New York & London, Garland Publishing, 2000.

[9] Ibidem, p. 97.

[10] Cfr. Z. Shavit, TRANSLATION OF CHILDREN’S LITERATURE, in POETICS OF CHILDREN’S LITERATURE, Athens and London, The University of Georgia Press, 1986, p. 112.

[11] Cfr. R. Oittinen, TRANSLATING FOR CHILDREN, cit., p. 4.

[12] Cfr. Z. Shavit, POETICS OF CHILDREN’S LITERATURE, cit., pp. 121-122.

[13] Cfr. J. Saltman, CENSORING THE IMAGINATION, in “Emergency Librarian”, 25, 1998, pp. 8-12.

[14 Cfr. R. Oittinen, cit., p. 93.

[15] La recente distribuzione di MY BEAUTIFUL MOMMY, Savannah, Big Tent Books, 2008, è attualmente oggetto di numerose polemiche, legate all’eccessiva spettacolarizzazione e promozione dell’interventistica plastica messa in relazione all’avventura fantastica.

[16] Cfr. A. Berman, THE EXPERIENCE OF THE FOREIGN: CULTURE AND TRANSLATION IN ROMANTIC GERMANY, Albany, SUNY Press, 1992.