25/09/08

Annalisa Bonomo, QUANDO LA FIABA DIVENTA MITO: J.R.R. TOLKIEN E THE LORD OF THE RINGS


[Tower in London, fairy coloured by dusk. Foto di Marzia Poerio]


Definito dalla critica come un’enorme e arricchita metafora dello hobbit, e facendo effettivamente uso di una similare struttura narrativa, simbolica ed episodica, THE LORD OF THE RINGS non trova ancora oggi particolari difficoltà ad imporsi ad un pubblico variegato e desideroso di sognare.

Assunta la conformazione di trilogia (THE FELLOWSHIP OF THE RING, THE TWO TOWERS, THE RETURN OF THE KING) a fini di pubblicazione su espressa richiesta della Allen & Unwin Publishers londinese, il capolavoro tolkeniano continua a proporsi, sin dalla sua prima apparizione nel 1954, nei panni di un continuo ed avvincente rebus di definizione, inerente il genere di appartenenza all’interno di un sempre rovente dibattito relativo alla “reale” natura del fantasy.

La critica, di settore e non solo, ha continuamente tentato di ascrivere l’opera ora al reame della “leggenda”, ora a quello della “fiaba”, ora al più classico “poema cavalleresco” sino alle nuove definizioni di THE LORD OF THE RINGS quale esempio di “epica fantastica”[1] o meglio ancora di maturo romance [2].

Superato il tentativo classificatorio che sovrasta la critica anche in epoca postmoderna, riteniamo possibile individuare all’interno del tentativo tolkeniano gli spasimi di un’allegoria della condizione umana, la quale, nonostante l’aperta opposizione dello stesso autore all’uso della categoria dell’“allegorico”, ripropone in chiave moderna gli stessi antichi miti da cui la sua formazione di uomo e di intellettuale avevano preso avvio.

Le millequattrocento pagine lungo le quali il viaggio fantastico del protagonista Frodo si sviluppa, forniscono rilevanti spunti d’interesse relativi ad una struttura narrativa a cavallo tra i generi. D’altronde: “L’analisi morfologica della fiaba mostrerà che essa contiene molto poco della vita reale. Tra la vita reale e la fiaba esistono certi elementi di transizione nei quali la vita reale si riflette indirettamente” [3].

È a partire dal reticolato funzionale di matrice proppiana e da un approccio “scientifico” alle fiabe, che le relazioni di Tolkien con la tradizione fiabesca prima e con gli standards recentemente ascritti alla paraletteratura poi, rivelano un sostanziale rinnovamento dei concetti di serialità e ripetitività formale, già evincibile all’interno del suo ormai famosissimo saggio sulle fiabe dal titolo ON FAIRY STORIES [4].

Sebbene, infatti, una relativa unità tematica sembri essere assicurata preventivamente dal ritorno sulla scena di numerosi personaggi ormai ben noti al pubblico appassionato del fantasy tolkeniano antecedente la storia dell’anello, e non potendo negare gli inevitabili punti di connessione con l’opera precedente, il processo formativo dello hobbit, protagonista della trilogia, a metà strada tra l’essere e il divenire e partecipe quindi di un’altalena costante tra lo stato di natura e il rinnovamento culturale, colloca la stessa ad un gradino superiore a quello della fiaba/favola di rivisitazione moderna.

Ma procediamo con ordine. Il canovaccio di riferimento dei tre volumi della trilogia, si muove perpetuamente lungo due intrecci contemporanei e complementari tra loro: il battutissimo tema della quest eroica, incarnata dal giovane ed inesperto protagonista, Frodo, e il complementare ma altrettanto tipico motivo del “ ritorno di un Re” al suo legittimo regno, incarnato dal peregrinare di Aragorn il Ramingo, leader di carattere più politico che morale del destino toccato a Frodo.

È fuor di dubbio che l’abbandono della ridente Contea degli hobbits (di chiara proiezione edenica) da parte della Compagnia designata alla distruzione dell’anello, aderisce almeno sul piano formale agli schemi funzionali dei personaggi già propostici da Propp e Greimas. In relazione, poi, alle più moderne rivisitazioni del genere fantastico (si pensi, fra tutte, a quella condotta dall’oxoniano Philip Pullman con il suo HIS DARK MATERIALS) [5], Tolkien partecipa pienamente ad un gioco delle parti tra buoni e cattivi, tra aiutanti e oppositori, tra il mondo dell’essere e quello dell’apparire, rigorosamente inserito all’interno di un universo gerarchizzato all’estremo e retto dalle più rigorose leggi manichee, decisamente in crisi, invece, all’interno della produzione degli ultimi anni.

Sebbene anche in Pullman il punto di partenza del viaggio della giovane Lyra sia ancora una volta l’allontanamento dell’eroe dalla propria “comunità”, la gamma di personaggi proposti da Tolkien (fuorchè nel caso di Gollum-Smeagol-Frodo per il quale l’approfondimento psicologico si colora di maggiore intensità) non rivela la medesima complessità di quelli creati da Pullman, ad esempio, secondo il quale il principio fondativo dell’universo reale e fantastico, nonché strettamente narrativo, coincide per l’appunto con l’azzeramento di una prospettiva manichea stabile.

Sono la necessità d’azione unitamente all’abbandono della staticità edenica dell’innocenza ad essere “subite” dal giovane Frodo e a costituire il cardine intorno al quale ruota l’intera trilogia tolkeniana. La vittima prescelta si ritrova così suo malgrado coinvolta tra le trame del suo eterno oppositore, Sauron e del suo fido braccio destro Saruman, antico stregone partecipe della mitica e saggia comunità degli Istari, corrotto nell’anima dalle lusinghe del potere e dal desiderio fisico dell’anello.

Il controcanto necessario alla persecuzione di Frodo si svela quindi nella numerosa lista di aiutanti che ne segnano il cammino verso il Monte Fato: Aragorn il Ramingo, Legolas l’Elfo, Gimli il Nano,Tom Bombadil, simpatico spirito della foresta, Galadriel, potente dama elfica del reame fatato di Lothlorien, Merry e Pipino, Samvise Gamgee e Gandalf, ovviamente, proiezione della saggezza più pura ed incontaminata. Come evidente, l’intera struttura narrativa ritrova nella perpetua alternanza tra personaggi altamente positivi ed altri, invece, palesemente negativi, la propria ragion d’essere.

Si tratta perciò essenzialmente di un viaggio scandito dalla presenza costante di Frodo in cerca di se stesso. Il suo, infatti, si rivela un percorso formativo di coloritura morale, una sorta di tradizionale rite de passage, oltre il quale è costretto a proseguire dal battesimo alla vita, alla ricerca di se stesso: “Human nature is a nature continually in quest of itself ” [6].

È solo alla luce di tali considerazioni che il cammino narrativo prescelto da Tolkien, conclusosi in accordo al “movimento circolare” del ritorno a casa dei protagonisti e con il ristabilimento dell’ordine costituito, rimanda ad un finale “eucatastrofico” di particolare intensità. Il fanciullo riportato a casa, è ormai profondamente cambiato ed il principio stesso del male non può che constatarlo: “You have grown very much, Halfling […] You have robbed the sweetness of my revenge” [7].

La gioia incontrastata del ritorno a casa e l’attesa entusiastica di un nuovo futuro, non sono più elementi sufficienti all’effettivo reintegro dell’eroe nel suo habitat naturale. L’avvenuta consapevolezza del reale e la trasfigurazione prodottasi in Frodo in seguito alla distruzione dell’anello, rinnegano l’iniziale morale dell’azione proposta sin dal primo volume. Frodo stenta a riconoscersi nella sua stessa vita, e terminato il suo ruolo all’interno della propria comunità, non riesce a ricomporre la frattura che la caduta dall’innocenza all’esperienza ha ormai prodotto. Il suo esilio volontario verso le Terre Immortali coincide quindi con il commiato finale tanto dell’autore quanto del lettore.

In contrasto con un assoluto happy ending tradizionale, Tolkien fa della conclusione della vicenda un’“opera aperta” per dirla con Eco; fa dell’impegno fantastico un’apertura di senso e della fantasia il volto sovversivo della realtà. Tipica, invece, della fiaba tradizionale rimane la quest parallela di Aragorn.

Il riconoscimento del vero Re di Gondor, costituisce secondo la critica, uno degli elementi della certa ascrivibilità dell’opera tolkeniana agli universi della fiaba tradizionale, a garanzia, inoltre, di un presunto contratto di lettura paraletterario, stipulato tra l’autore ed il lettore, pronto ad immergersi nella storia a patto di rimanere soddisfatto da un totale lieto fine e da una sostanziale fiducia nella complessiva positività della storia.

Aragorn rappresenta, in effetti, uno tra i personaggi più tradizionali mai nati dalla penna di Tolkien. È al discendente di un’antica e valorosa stirpe di Re, che Tolkien riserva i panni di un eroe ben più stereotipato del giovane Frodo Baggins.

Costretto ad un lungo esilio ed al travestimento (al pari dei più nobili principi delle fiabe resi repulsivi da malefici incantesimi) e protagonista sospetto della vicenda a causa delle sue numerose identità (Granpasso, Aragorn, Dunedain, Elessar), Aragorn è invece il vero Re, mitico guaritore e guida legittima del suo popolo.

In relazione alla sua grandezza, Frodo pare ascrivibile ad un’altra categoria fiabesca, quella del “fratello minore”, contraddistinto dall’umiltà e dall’assenza di particolari abilità fisiche, ma “scelto” da un destino che gestisce le regole della vita e della morte: “There was something else at work, beyond any design of the Ring-maker. I can put it no plainer than by saying that Bilbo was meant to find the Ring, and not by its maker. In which case you also were meant to have it. And that may be an encouraging thought”[8].

La responsabilità di cui il giovane hobbit si fa carico cessa di essere personale; si tratta, invece, di ciò che Patricia Spacks ha definito come cosmic responsibility [9].

La distruzione del pericolosissimo anello e la sconfitta di Sauron (in altre parole, il compiersi di tale destino) si realizza nella cooperazione dei due eroi protagonisti Frodo e Aragorn, indispensabili l’uno all’altro, attestazione di una morale primigenia rappresentata dal giovane hobbit e dell’abilità politica del coraggioso Re. In linea con un’idea di ciclicità della storia, la distruzione dell’anello rappresenta, perciò, soltanto l’ennesima e temporanea trasfigurazione della realtà. D’altronde: “Tutto ricomincia dal suo inizio in ogni istante, che il passato non è che la prefigurazione del futuro […] e che nessuna trasformazione è definitiva [10]”.

Il mito propostoci è pertanto quello della “rinuncia”, rinuncia dell’anello, del potere, di tutto ciò che rifugge al controllo umano. A Tolkien rimane quindi un eroe “diverso”, una sorta di anti-Faust [11], ma non per questo un anti-eroe. A Frodo spetta il volto di un eroe anomalo, che venuto in possesso dell’assoluto Potere, accetta di distruggerlo piuttosto che agognarlo, padrone di quella saggezza degli umili, tanto cara al suo creatore.

THE LORD OF THE RINGS è dunque la storia di una quest negativa, di un viaggio al contrario lungo una via camusiana dell’“assurdo”, della rinuncia a ciò che si ama di più, della decostruzione dei più comuni punti di riferimento razionali, alla ricerca di un barlume di verità.


NOTE

[ ] L. Carter, A LOOK BEHIND THE LORD OF THE RINGS, New York, Ballantine Books, 1969. All’interno del volume, Carter tenta di tracciare lo sviluppo del genere fantastico dalle origini ( epica antica) sino al XX secolo.

[2] D.S. Brewer, THE LORD OF THE RINGS AS ROMANCE, in TOLKIEN SCHOLAR AND STORY TELLER. ESSAYS IN MEMORIAM, Londra, Cornell University Press, 1979, pp. 249-64.

[3] V. Propp, MORFOLOGIA DELLA FIABA (1928), Roma, Newton Compton, 2003, p. 89.

[4] Il saggio è contenuto all’interno della raccolta TREE AND LEAF, pubblicata da Allen&Unwin nel 1955, unitamente al racconto di matrice allegorica dal titolo LEAF BY NIGGLE. Negli anni Sessanta la stessa casa editrice decise di ripubblicare il volume con due ulteriori aggiunte: SMITH OF WOOTTON MAJOR e THE HOMECOMING OF BEORTHNOTH, già apparsi separatamente a cura dello stesso Tolkien rispettivamente nel 1967 e nel 1953.

[5] La trilogia di Philip Pullman nota con il titolo HIS DARK MATERIALS, venne pubblicata separatamente a partire dal 1995 con NORTHERN LIGHTS, nel 1997 con THE SUBTLE KNIFE per finire nel 2000 con THE AMBER SPYGLASS, per i tipi della Scholastic. Il primo volume è giunto invece in America con il titolo THE GOLDEN COMPASS, pubblicato nel 1996 dalla casa editrice Knopf.

[6] W. Auden, THE QUEST HERO IN TOLKIEN AND THE CRITICS, a cura di N. Isaacs e R.A. Zimbardo, University of Notre Dame Press (Indiana, U.S.A.), 1976, p.40.

[7] J.R.R. Tolkien, THE LORD OF THE RINGS, Boston, Houghton Mifflin Publishers,1966, III, p. 299.

[8] THE LORD OF THE RINGS, cit., I, p. 65;

[9] P.M. Spacks, POWER AND MEANING IN THE LORD OF THE RINGS, IN TOLKIEN AND THE CRITICS, cit., pp 81-99.

[10] M. Eliade, IL MITO DELL’ETERNO RITORNO. ARCHETIPI E RIPETIZIONI, Roma, Borla, 1999, p. 91

[11] R. Helms, TOLKIEN’S WORLD, Londra, Thames and Hudson, 1947, p. 51.