09/03/08

Roberto Natale, IL GIARDINO DAI TANTI FIORI


[Flower Pot. Foto di Marzia Poerio]


“Certo”… mi dice l’amico Stefano mentre passeggiamo nel giardino ventoso d’un basso febbraio: “quando un Paese cigola scricchiola tutto”… e ridacchia per l’involontario calembour. E mi guarda in tralice con amichevole ironia: “poesia compresa”…

Lo spiazzo annuendo: “Soprattutto. Ma questa è una storia con lontane radici”…

“Guelfi e Ghibellini… Francesco Petrarca e Dante Alighieri”… trancia e semplifica Stefano andando al sodo d’una divaricazione fra pura lirica e struttura poetica narrativa, che da noi ha messo solide e arroganti radici elitarie.

Annuisco: “Guelfi e Ghibellini è una felice metafora di scontro… letterario, posso dire così? Almeno tenendo l’occhio sulla nostra storia e su ciò che ne rimane”.

Stefano, da sceneggiatore di provenienza letteraria, ne coglie la mia connotazione implicita: “Una storia di corti, da Federico II in poi, di trovadori e castelli, di eredi del latino quando già il popolo, anzi la gens del mosaico italico fermentava l’impasto nuovo di gergali linguaggi, alieno dai sofismi culturali di una casta…”

Lo interrompo ridendo: “Già allora?”

E lui con lo stesso tono: “Che derivi da castello?”

“Penso di sì. Castelli che ci sono ancora…”

“Intendi che ancora regge la dicotomia fra il linguaggio comune e quello poetico? Sembra ovvio, non credi?” precisa Stefano.

“Mica tanto, se è vero come è vero che nell’intera Europa la poesia è frequentemente letta anche dalla media popolazione, al contrario di noi. Quando Montale vinse il premio Nobel per la letteratura c’è stato un rilancio considerato da best-seller: ottantamila copie, se ben ricordo. Spiccioli…nei confronti di tanti veri best-seller di basso tenore letterario”

Stefano annuisce condiscendente: “Te ne do atto. Ma è anche vero quello che dice Sklovskij sul raffronto fra il linguaggio della prosa e quello della poesia: il primo si presenta come un parto normale, uscente dalla testa, mentre il secondo si presenta come un feto messo di traverso, da raddrizzare con pazienza per il senso giusto. Quindi una lettura torta da una specifica semantica e dalle gabbie ritmiche.”

“Difficile, insomma, vuoi dire. Non ci sono dubbi. Ma è della tematica che parlo, di quello sguardo soggettivo che si connota nella pluralità d’un comune sentire. Insomma, per dirla in soldoni, che sia un atto di comunicazione e non un interiore mormorìo edonistico decifrabile solo dal critico specialista. Non voglio arrivare al motto di Leoconte de Lisle (ripreso da Baudelaire e citato da Lunetta - poeta essenzialmente civile) che dice: ‘tutti i poeti elegiaci sono delle canagliÈ. Ma è lo iato che ha finito da noi col tranciare la lirica - solitudine folgorante - dall’impegno civile necessariamente tendente al prosastico, sospingendolo al limes di una riserva indiana. Dico ‘da noi’, poiché è qui che s’è imposta la signoria della tradizione petrarchesca, come unica cittadinanza riconosciuta della poesia.”

L’amico Stefano mi ferma col cenno di una mano: “Non sei troppo manicheo? Senza scomodare l’antico davvero ti devo ricordare le tendenze, le sperimentazioni, le pluralità del secolo scorso? E se non ti bastasse ti ricordo che Pasolini s’è impastato fino allo stremo nel sentimento popolare, diciamo così.”

Non mi resta che assentire, naturalmente, ma riprendo: “Vedi, ma quando ti parlo di tradizione, e qui mi è forse mancata la chiarezza, mi riferisco a ciò che ci rimane oggi nel fondo sedimentato di una cultura che rischia l’afasia, mentre intorno (anche linguisticamente) infuria uno tsunami epocale. Cioè, per stare nella nicchia della poesia, quale identità ci resta? Guardiamo, per esempio, alla percezione che si ha del poetico. Nell’ambito popolare di un comune sentire, nella stessa scuola, nella proliferazione dei concorsi estivi letterari; è un termine che connota l’ispirazione angelicata, quasi la trascendenza colta nell’ineffabile di un inconsapevole dono. Quando invece è lavoro. Elaborazione. Ecco perché tutto ciò che esula dall’accensione epifanica, ciò che è struttura e ricerca viene espunto come opacità prosaica. Naturalmente sto estremizzando e devi capirmi con granu salis…”

Stefano mi interrompe: “Naturalmente stai parlando della non poesia”.

“Bravo. Forse sto proprio parlando di questo, che però è l’indice di una deriva ultima che culturalmente fermenta alla base, corrodendo il linguaggio in una usurata koiné che è l’antitesi di ogni ricerca comunicativa. E allora ecco che si prende a supporto il bagaglio arcaico e sdato d’una delicatesse terminologica suffragante il soffio spirituale: ed ecco fiori, nubi, risacche d’onde variamente aggettivate, cieli e sospiri e tramonti e poi, naturalmente, l’amore - non sessuale, per carità - ma come esalazione di un tormento intimo e incomunicabile, va da sé”.

L’amico Stefano mi interrompe (giustamente) con una risata: “Ma stai grandinando!”

Non mi resta che associarmi a lui: “È un eccesso come tutte le invettive” mi difendo rabbonito: “ma è il clima forse che stiamo respirando… la frantumazione individualistica che globalizza e confonde. O forse l’amara percezione d’un populismo (non popolare) culturale che non risparmia neppure la poesia. Ch’è ormai nicchia di templari…”

Ancora una volta la saggezza di Stefano: “E quando mai non lo è stata?”

Con le spalle al muro tento di svicolare: “Forse ho la nostalgia di quando il popolino rinascimentale portava in trionfo per Firenze i quadri dei grandi pittori - se mai è avvenuto - o i contadini citavano a memoria l’Inferno della Commedia”…

E ancora Stefano sigilla: “Beh… può sembrare poco… ma oggi c’è ancora un Benigni a mantenere viva quella tradizione”…

Ed io annuisco: “Forse non è poco… se porta l’audience a picchi popolari. In pieno caos sociale. È il nostro perenne paradosso...”

Ma una vocetta infantile ci ferma vicino ad un chiosco di bibite: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Il ragazzino solitario, appartato dalle corse e dai giochi, legge su una panchina da un libro scolastico: “mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita”…

Stefano ed io ci scambiamo un’occhiata sorpresa. Poi gli offriamo un gigantesco gelato.