Frammenti di Wols (1949)
Parmigianino,
l’arte era troppo semplice, per lui, troppo evidente,
la lasciò per studiare alchimia,
studi furibondi, la febbre,
muore a trentasette anni.
Non vede che a metà
non assorbe che a metà quello che vede
Potrei fare qualcosa di questo steccato domani o dopodomani, ma bisogna che entri nei miei occhi prima di uscirne sotto una forma che sarà veramente mia. Un artista vede al di là dell’evidente.
Paul Klee, VOLTO AUSTERO: un volto astratto, la lama arancione di un’ascia con due buchi scuri al centro, un corpo che è un cono dello stesso colore, una mezza luna gialla appoggiata sopra. La base della luna, a sua volta, poggia su un vascello a forma di cappello, di un grigio lucido. La figura si staglia su un rettangolo nero. La rifarei tutta, la faccia, ma senza somiglianze con qualcosa di umano, tipo un cardo o un cespuglio.
Leonardo nei disegni del DILUVIO
appunti per un'arte futura che non sia
architettura mentale.
Piero di Cosimo predilige gli sputi
Alexander Cozens le macchie
sputi e macchie che sembrano
crateri e labirinti.
Nelle sagome di certi cavalli del Pisanello,
nell'ombra di certe mele di Cézanne,
la tenebra che voglio. Merda
a ogni perfezione annunciata!
Presentatore di ombre,
potrebbero chiamarmi così.
Si sforza di vedere la terra con occhi inumani,
ridicolo
che lo chiamino pittore
Per resistere con efficacia in questo
rivoltante caos, ho cominciato
a lasciarmi crescere la barba
sola attività onesta
nella mia breve vita
Klee? Le sue “creature”?
Angelici emissari di un mondo magico? No, cazzo!
Esseri infimi, diabolici,
non sfuggono all’attrazione terrestre.
Nato non da uomo non da donna.
Compagno di una bisaccia e di un cane. Ospite casuale di un mondo che non sembra illuminato dal vostro sole ma illividito in un’atmosfera da basso infernetto. W il banjo. Berrò fino alla morte. Non sento nemmeno la fame. “Dovettero fermarsi in un albergo. Là Lenz tentò ancora varie volte di infierire contro se stesso, ma era sorvegliato troppo attentamente. La mattina dopo, con un tempo grigio e piovoso, raggiunsero Strasburgo. Sembrava pienamente ragionevole, discorreva con la gente. Faceva tutto ciò che facevano gli altri; ma c’era in lui un vuoto orrendo, non provava più angoscia, non aveva desideri, l’esistenza gli era divenuta un peso necessario. Così trascinò la sua vita…”.
Hugo Wolf non lascia testimonianze scritte della sua pazzia, solo qualche rara lettera. Fra i suoi ultimi Lieder ne ricordo uno, da una poesia di Byron: “Sole che non trova mai sonno, sole dell’insonnia!”. Sono tutti strambi e vacillanti. La potenza del piano contrasta la linea del canto. La musica non accompagna la voce. Non è seconda alla voce.
Wolf morrà in una cella del manicomio del dottor Svetlin, a Vienna, il 22 febbraio 1903, per un’infezione luetica. L’uomo che si abitua alla sua follia vi si rintana e non cerca più nulla.
Scrive Van Gogh:
“C’è uno qui che grida e parla sempre, come ho fatto io per quindici giorni, crede di sentire delle voci e delle parole nell’eco dei corridoi, probabilmente perché il nervo dell’udito è malato o troppo sensibile… La scossa è stata forte, ma prima avevo il disgusto perfino di muovermi e niente sarebbe stato più piacevole per me che non svegliarmi più. Ora questo orrore della vita è diminuito e la malinconia è meno acuta”.
Ogni opera, anche la più eretica, viene sempre accettata, con il passare del tempo. Alla fine – la bastarda! – rompe i paletti della percezione, e i cieli turbinosi di Vincent, i suoi verdi burrascosi, non irrompono più nella rètina, diventano cosa guardata. Il genio insegna a vedere il giallo e il nero - un campo di grano con corvi. Noi, come tante scimmie, lo vediamo dopo. Se uno si sveglia e smette di fare la scimmia, cosa succede? Si caga addosso?
“Ci sarebbe un unico partito da prendere - scrive Nodier - spogliarsi del nome di uomo e raggiungere le foreste con uno scoppio di risa universale: poiché una società simile non merita altro addio”.
Una società che seppellisce i suoi artisti nei manicomi
con l’alibi di una diagnosi psichiatrica
con l’intenzione cosciente di ammutolire
gli inclassificabili.
La pittura vuole occhi
che, oltre l’intensità dell’ultimo colore,
siano ciechi.
Tanti gli artisti che hanno paura di una tela bianca, ma la tela bianca ha paura di un vero pittore, capace di osare.
E se trovassi il modo in cui definire l’angolo di incidenza
fra il raggio del sole al tramonto
e l’altezza dello strapiombo?
Il gioco della razza bianca
è splendido ma sballato
Io dormo meglio
sul Water
che nel letto
è l’Universo
Mi piacerebbe che proprio qui,
accanto ai miei piedi, vicino a questo sputo,
che non è neppure mio,
convenissero i massimi interpreti dell’arte moderna
per una discussione
sul non perfetto che resta
sulla piscia dei cani
Ma cosa vuoi che voglia?
Illustrare Artaud, ovviamente,
e bere
fino a crepare.
Qualcuno si rende conto che la verità
me la striscio sul dito
quando sanguina, come quel giorno
su un libro che distingueva
due follie.
Ma che bravo!
Come fai a separare un doppio whisky?
NOTA DELL’AUTORE
Wols (pseudonimo di Otto Schulze, 1913-1951) è una delle figure più controverse e più eccentriche dell’arte informale della seconda metà del Novecento. Di lui disse George Mathieu: “Dopo Wols bisogna rifare tutto”. Maestro di una pittura ossessiva ed allucinata, nella scia del Klee più ardito, Wols, incisore e fotografo, ha anche scritto aforismi e osservazioni sull’arte. In questo mio racconto mescolo alcuni suoi frammenti reali a mie personali reinvenzioni.