23/01/08

Roberto Natale, LO SGUARDO


[Her sight addresses the onlookers from the walls of Hong Kong. Foto di Marzia Poerio]


"Lo sguardo" dice l’amico regista Tonino, passeggiando nel giardino del quartiere: "è cambiato lo sguardo…"

"Del cinema, vuoi dire…"

"Certo, ma non solo, ovviamente. Tutto si tiene. Tra il cinema e la società, poi…"

"Vuoi essere più preciso? Quale sguardo?"

"Quello che c’era prima. La capacità di leggere la realtà, il mondo che ci sta intorno".

"Ti stai guardando indietro come l’Angelus Novus di Klee…"

M’interrompe secco: "Già, ma era il nostro futuro, la speranza, almeno. Vatti a rivedere ROMA CITTÀ APERTA… MIRACOLO A MILANO… VIAGGIO IN ITALIA… insomma tutto il cinema nostro dal dopoguerra in su, dentro il miracolo economico e la nascita di una nuova borghesia, con i dubbi esistenziali fiutati da Antonioni. Era quello lo sguardo giusto a rivelarci la società in cui vivevamo. Hai capito cosa intendo?"

"Certo, è stata una stagione straordinaria del nostro cinema. Ma non poteva durare all’infinito…"

"Non ho questa pretesa. Ma nel crescente benessere s’è infilata una commedia all’italiana che ridendo si trascinava dietro amare riflessioni, contraddizioni e guasti che appartenevano ai nostri vizi vecchi e nuovi. E le 500 già affollavano allegramente le nostre strade, quando Monicelli rifilava agli Italiani la GRANDE GUERRA: un occhio introspettivo puntuale su due pelandroni (i grandi Gassman e Sordi), che schivano da pusillanimi i rischi mortali del ’18, col finire fucilati per uno scatto istintivo di dignità. Un ritratto, caro mio, in cui ancora ci riconosciamo".

"D’accordo, ma qui siamo al top elitario di una produzione che allora, se ben ricordo, viaggiava sui quattrocento film per stagione".

"E hai detto steccolo! Ma è questo il punto! Che il cinema rappresentava, esprimeva, un’espansione collettiva in stretto rapporto con la nostra realtà. Guardava necessariamente alle stratificate domande della gente che affollava le sale. E ci metto anche i film che un’infausta eredità crociana critica snobbava con sufficienza".

"Vuoi dire i film di genere: horror… western… storici…".

"Perché no? Da noi passati sottogamba mentre all’estero erano accolti con vero interesse da una cultura più popolare e pragmatica e forse più occhiuta. Film in larga parte inventati da produttori improvvisati, ex-cavallari che s’imbottivano di cambiali con entusiasmo. Era un humus che fortificava le imprese più ambiziose come quelle dei Ponti, dei De Laurentis… tutti rischiando in proprio, fidando nel consenso popolare. Perché c’era allora una tensione coesa anche quando le fazioni si scontravano sulle piazze".

"E poi?"

"E poi il tuo Angelus Novus - proprio quello che Benjamin ha letto come l’angelo della Storia voltato indietro - ha cominciato a scorgere le nuove macerie; ch’erano quelle di Mani Pulite".

"Ma cosa c’entrano col Cinema?"

"Non fare lo gnorri. Stiamo parlando di metafore speculari. E sono i primi segnali d’un andare da gambero. L’annuncio d’un impero mediatico televisivo il cui primo suddito è proprio il cinema, cominciando dal suo linguaggio, peculiare e iconico. Che si fa verboso, si sminuzza sempre più corrivo alle esigenze di chi ormai detiene le chiavi del tesoretto distributivo. Che i vecchi e audaci produttori o espatriano o si rintanano nella nicchia, o i più si mettono in fila, con un copione confezionato secondo l’ottica prevedibile dei committenti. Che stanno lassù, nella nuova esigua casta televisiva sempre più Padrona. Sì, con la P maiuscola. E non parlo solo dei Media, va da sé".

"Ma questo è pessimismo preconcetto, dammene atto. È vero che noi tutti cinematografari abbiamo patito crisi, come ci sono sempre state, ma ci sono anche delle riprese. Non mancano i buoni film. I fermenti giovanili che fanno ben sperare".

"E chi dice il contrario. E ci saranno sempre, almeno lo spero. Ma è il contesto generale che sta rapidamente smottando. Non serve sbandierare con esultanza che l’anno scorso il cinema italiano ha superato il trenta per cento del mercato. E grazie ai film comici natalizi od a occasionali successi. Perché il novanta per cento del listino non parla italiano. E perché la stragrande parte dei film prodotti col finanziamento pubblico non arriva nelle sale".

"Eppure s’è visto qualcosa di buono…"

"Una rondine non fa primavera", mi risponde l’amico scuotendo la testa: "È il senso della collettività che sta degenerando senza distinzione di parti, perché gli autori pagano anche per il disinteresse crescente della gente. Se n’è andata un’intera generazione che gli eventi storici avevano certamente segnato, e le nuove appaiono demotivate e confuse. L’altro giorno, scrivendo del nostro cinema, il londinese "The Independent" ha parlato dell’autostima ridotta in rovina, e certo con un significato polivalente. La grande epoca nata dal neorealismo è ormai relegata nella teca museale del secolo scorso. Quegli orizzonti allora recepiti anche negli altri Paesi, sono radicalmente rattrappiti fino al limes del nostro orticello. Purtroppo, per usare la battuta parafrasata dall’umorista Patroni, siamo ormai un Paese chiuso in casa. E per il cinema non è tanto più una questione di soldi, come ci dimostra ROMA CITTÀ APERTA, fatto raccattando gli spiccioli, ma di visione del mondo. Senza la quale c’è la decadenza. E allora, senza più vento sulla vela, si cincischia attorno al proprio ombelico, si scade nel piccolo borghese delle querelle intimistiche, amorose, tanto per rendere più colorito ed accettabile l’orto di casa. Ed è quello che sta succedendo, sotto il benevolo (e malevolo) assenso interessato d’un monopolio televisivo che cinicamente alimenta il gusto della superficialità e della sciatteria con l’intento di saldare un circuito mediatico d’una sola voce".

Così l’amico chiude la sua filippica amara. Ancora pochi passi in silenzio. Poi io tendo una mano guardando le nubi: "Allunghiamo. Sta piovendo". Ma lui scuote la testa: "Non è acqua. È mucillagine".