14/12/07

Piera Mattei, RETI E ATTRAVERSAMENTI: LA CITTÀ IN POESIA (PRIMA PARTE)


[The city now, behind its past. Bangkok 2006. Foto di Marzia Poerio]


Cercherò di combinare in questo mio intervento una visione della città in sé, mediata da moderne teorie interpretative, e un atteggiamento più appassionato, che comprende i sentimenti che ognuno prova, con maggiore o minore consapevolezza,verso il luogo dove vive, il volto della sua città, la sua luce, il suo odore: odio e amore. Parlerò comunque come una persona ferita più dall'amore che dall'odio, come appartenente al numero di quelli che, pur soffrendo i difetti della città e a causa di quelli, ritengono inconcepibile vivere al di fuori di un solido, direi storico, contesto urbano. E parlerò per lo più attraverso la voce di poeti, cercando d'altra parte di profittare di concetti che la scienza ci mette a disposizione.

La città: un argomento infinito. È il luogo per eccellenza delle culture stanziali, è nelle città che le culture stanziali celebrano i loro trionfi.

Ma è anche luogo d'immigrazione, di nomadismo interno, d'incessanti attraversamenti, di un andare insieme, di cui i mezzi pubblici e gli attraversamenti ai semafori sono l'immagine che qui catturo come la più adatta a esprimere il concetto.

La città nel suo insieme ha un suo respiro, ed è coperta da una multipla rete di relazioni. Sulla base di questi networks può essere studiata, secondo l'attuale teoria delle reti, come si studia una cellula vivente, il successo di un'idea, di un partito, di un individuo.

Una città di successo è lì dove vi si celebrano il maggior numero di eventi grandiosi (quasi fossero le performances di un divo). Le città di successo sono quelle visitate da milioni di persone, dove le masse vi si affollano seguendo un richiamo, come per un attore, un divo, appunto.

Masse di individui che non si conoscono vanno nella stessa direzione o in direzioni opposte, scendono alla stessa fermata e si separano, proseguono, obbediscono sincronicamente a uno stesso segnale luminoso. Ciascun individuo ha un progetto, ma partecipa anche del progetto dell'altro. È unico, ma è esposto o già assimilato a un processo di mimesi, vedi il particolare modo di vestire che corrisponde anche a esigenze climatiche o a particolari tipi d'attività, ma obbedisce più al reciproco rispecchiarsi: è la moda di una città. Si distinguono dalle masse che transitano nelle stazioni e negli aeroporti, perché restano all'interno di una realtà culturale multipla e omogenea insieme. Si muovono, anche convulsamente, restando nella città, obbedendo a regole interne di movimento (soste vietate, sensi obbligati, chiusure di strade, orari di chiusura di servizi pubblici e privati etc.).

Nel movimento, la contiguità con l'estraneo, l'imprevedibilità dell'incontro, anche fortunato, anche amoroso, ma più frequentemente col ladro, l'imbroglione, se non con il vero assassino, crea la situazione ambivalente, pregio e rischio della città. Da qui l'opposta tendenza a suddividere la città in zone abitate da classi sociali medie e estreme, individui di provenienze diverse, luoghi dove si esercitano attività proibite, segregazione o rifiuto del diverso.

Guardiamo solo da osservatori, per esempio, a Roma gli attraversamenti di Piazza Argentina o, ancora come esempio, Ginza a Tokio: coloro che appartengono, in quell'attimo, a uno stesso luogo, compiono un'azione analoga, subito dopo - attraverso una rete d'intenzioni e di strade - si separano per andare a connettersi ad altre costellazioni di reti.

Dall'alto la foto di questo movimento diventa continuo: fili s'intrecciano in nodi, proprio come in una rete, simile al disegno di una cellula vivente. La teoria delle reti studia la città come fosse una cellula, e per dirla nei termini della poesia: la città è la metafora di una cellula e viceversa.

Come nella cellula ci sono elementi del proteoma, cioè le proteine, che hanno molti legami, altri che ne hanno meno, ma tutti sono importanti per la vita - anzi non dipende direttamente dal numero di legami la loro natura di proteine letali, tali che se muoiono, l'intera cellula muore - così avviene nella città. Anche ciò che rimane quasi nascosto, fuori della luce dei riflettori è parte della sua vita. Torneremo più avanti sull'importanza di piccoli luoghi che qui definisco "dedicati alla poesia" anche se quasi sconosciuti, scarsamente connessi.

Inquietante e insieme tranquillizzante, per quanto riguarda la vita della cellula, che considero qui come microimmagine della città, è l'affermazione del fisico Kaufmann che la vita si manifesta, non nella fase dell'ordine, del congelamento, e neppure nella fase del caos, ma esattamente al limite del caos at the edge of chaos. Conoscere questa ipotesi ci fa sentire ugualmente vivi in ogni momento, ugualmente precari. Ma certo non compromette la progettualità, l'impegno ad agire, l'etica.

Se la vita, per esserci, si colloca al bordo del caos, la mente, per agire, deve operare alcune semplificazioni. Semplificare dà un sollievo quasi fisico alla mente, ricordo il mio ancora infantile piacere quando riuscivo a scomporre numeri complicati con moltissime cifre in tranquillizzanti fattori primi. Anche per capire la città c'è bisogno di interpretare sotto profili semplificati e riconoscibili l'andare e venire delle masse che l' attraversano, le intrecciate reti relazionali che esprimono (lo sentiamo nell'aria, o addirittura a pelle) potenzialità, positive e anche negative.

I luoghi della città e i poeti: ecco due soli parametri che metto a confronto. Consapevolezza della bellezza e profondità dei luoghi che i poeti hanno saputo esprimere, hanno voluto concretamente descrivere, ma anche, con il loro sguardo, dotare di un'ulteriore rete di significati, che aiutano ad attribuire, non certo eternità, ma un'umana durata. Come se la fisicità stessa di una città si combinasse con la forza spirituale della poesia, producendo una levitazione estetica degli spazi, delle vie, delle piazze.

Riprendiamo quindi da quanto mi sembra eminentemente cittadino, gli attraversamenti collettivi di passaggi obbligati, vedendoli attraverso la poesia, come avevamo accennato.

Mi vengono alla mente tre immagini di grande evidenza.

La prima, eccezionale nella sua modernità, è di Dante. È racchiusa in una similitudine, che riguarda i dannati dell'inferno, in particolare ruffiani e seduttori. Per spiegare in un'immagine come sono costretti a muoversi in quel girone, Dante evoca una scena di movimento, di spostamento ordinato, di attraversamento cittadino. Non ci sono dati certi che Dante fosse ambasciatore a Roma già nell'anno 1300, l'anno del primo giubileo, indetto da quel papa che poi divenne il suo maggior nemico politico, cioè da Bonifacio VIII. Forse basta la precisione di questa immagine ad attestare la sua presenza, lì, davanti al ponte di castel Sant'Angelo. Nel 1300 Dante deve avere osservato, memorizzandolo, un esperimento di canalizzazione del traffico pedonale per san Pietro e nell'opposta direzione, sopra l'unico ponte allora esistente su quel tratto di fiume:

"come i roman per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,

che d'un lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro;
dall'altra sponda vanno verso il monte"

Dante non si fa grande scrupolo di paragonare le folle dei pellegrini venuti a chiedere l'indulgenza a quelle di dannati per colpe ripugnanti. Non che l'indulgenza gli sembri promessa risibile, anzi nel purgatorio è detto dell'angelo nocchiero: "veramente da tre mesi [cioè dall'inizio dell'anno santo] elli ha tolto / chi ha voluto intrar, con tutta pace". Questo significa non farsi condizionare dal sospetto: quell'immagine era utile e quindi è stata usata, senza alcuna evidente volontà critica.

L'abbiamo detto: nella rete di relazioni cittadine il "male", forse sarebbe più giusto dire la malavita, o il vizio, sembra capace di stabilire catene e intrecci più saldi. La città è dunque luogo più simile a un inferno? Questo è senz'altro l'assunto di Eliot che riprende atmosfere dantesche per descrivere "la terra desolata", l'attuale terra dell'uomo che non è solo arido deserto scosso da un tuono senza pioggia, è anche la città degli uomini.

Secondo attraversamento, quindi. Secondo ponte. È il London Bridge di cui Eliot, parla in THE WASTE LAND prima parte, THE BURIAL OF THE DEAD:

"Unreal City
Under the brown fog of winter dawn,
A crowd flowed over London Bridge, so many,
I had not thought death had undone so many
Sighs, short and infrequent, were exhaled,
And each man fixed his eyes before his feet".

Versi riportati, in parte, in una traduzione quasi del tutto letterale da INFERNO, III, vv. 55-58 (Vestibolo, punizione degli ignavi)"[...] e dietro le venìa sì lunga tratta / di gente, ch'io non avrei creduto / che morte tanta n'avesse disfatta". Della scena dantesca ci sono poi i colori, o la mancanza di quelli. C'è l'"aere sanza stelle" diventato cielo senza luce e senza notte, "the brown fog of winter dawn". Ritroviamo i "sospiri" e quel riferimento ai piedi, giù dove in Dante fastidiosi vermi raccolgono le lacrime miste a sangue procurato da punture di mosconi e vespe, e in Eliot i cittadini londinesi abbassano gli sguardi d'individui senza speranza.

Eliot amò Dante, fin dagli studi universitari e ancora prima di acquistare un'adeguata conoscenza della lingua italiana. Si innamorò del suo progetto poetico, della sonorità e musicalità della sua terzina e fu un amore fedele e fruttuoso. Con una frequenza eccezionale lo inserì e lo citò nei suoi quadri di vita attuale, cittadina, desolata e perversa, talvolta nei climi di speranza purgatoriale. Un amore senza ripensamenti, che poneva Dante come poeta assoluto, al di fuori dei gusti, delle mode, delle graduatorie.


NOTA DELL'AUTRICE

Trascrizione e adattamento della prima parte dell'intervento alla conferenza sul tema LA CITTÀ, Incontri organizzati presso la Biblioteca della Camera dalla Universitas Montalina, 14 novembre 2007).