05/06/07

Saneh Sangsuk, UNA STORIA VECCHIA COME LA PIOGGIA


[Mapping the sacred. A temple surrounded by the new Bangkok. Foto di Marzia Poerio]










Nell'incipit di UNA STORIA VECCHIA COME LA PIOGGIA (titolo originale Djao Karakét, 2003; edizione francese 2004; trad. dal francese di Guido Lagomarsino, Milano, O barra O, 2006), il narratore in prima persona descrive una notte in cui:

"[...] faceva un freddo pungente, nel silenzio e nella solitudine, come in tutte le notti all'inizio della brutta stagione a Prek Nâm Deng. Soffiava un vento vivace, non ancora con raffiche feroci, ma a folate incessanti e sostenute, secche e furtive, foriere di violenza. C'era una cattiveria, una malevolenza nascosta in quel freddo e nel suo indolente respiro. Più avanzava la notte, più il soffio s'illanguidiva, ma aumentavano anche il freddo e la secchezza, si espandevano nelle particelle del cielo e della terra, dei canali, dei ruscelli, degli stagni, di ogni specchio d'acqua, delle vaste risaie dove il verde scuro ingialliva, ed esse sembravano produrre una luce propria sotto il chiarore delle stelle e della luna; s'insinuavano ovunque, nelle forre, nei superbi filari delle palme, nelle abitazioni e nelle capanne di paglia, nel fiato degli animali domestici e delle persone" (p. 5).

Con movimento circolare, si rivela solo alla fine della storia, nell'ultimo capoverso, cosa di veramente grave sia successo "all'inizio della brutta stagione a Prek Nâm Deng"; e che il narratore è lo stesso novantatreenne modesto di cui si è avuta notizia in principio: l'anziano che sa tenere a bada gli elefanti, rispettato dalla comunità, monaco buddista, tale da settantatre anni per riscattarsi (e si ritiene ciò sia accaduto) dagli eventi di quella notte.

L'interprete principale è dunque sdoppiato: delineando una parabola evolutiva, il personaggio che dice io parla della sua seconda vita in terza persona a insaputa del lettore, dandogli per 150 pagine l'impressione che il monaco sia un altro, non chi riferisce i fatti; e contestualizzando inizialmente gli eventi della notte fatale entro gli avvenimenti storici, politici, economici, meteorologici della Tailandia ad essi contemporanea; quindi regredendo all'infanzia e successivamente alla prima giovinezza, tra la sua famiglia di abitanti della giungla e con l'emersione graduale del pericolo della tigre, che uccide la madre del narratore bambino, trasformando il padre in cacciatore accanito, duellante contro le belve. Il padre ci rimetterà la vita; ma perirà anche Karakét, la moglie del personaggio che dice io, dopo l'uccisione della tigre più feroce, per un accesso di febbre che, ottenebrandogli la mente, lo spinge a uccidere la sposa credendo di colpire invece il fantasma del felino.

L'intreccio, pure nella sua complessità di voci, è quello di un resoconto epico e fiabesco. Narrare significa infatti, come nei racconti per l'infanzia, non fare "differenza tra realtà, sogno e fantasia". Ciò che si enuncia è arcaico "come la pioggia". Si legge ulteriormente:

"Tutte queste storie, non pretendeva mai che fossero vere, ma nemmeno che fossero false, non pretendeva neppure che fossero storie vere con particolari inventati o che fossero storie inventate con certi particolari veri. Alla fine si era reso conto di essere come suo padre, il Vecchio Djampâ, pieno di storie, di sensazioni e riflessioni che trasmettevca alle generazioni seguenti" (p. 36).

Senza tempo, in parte, per questa caratteristica di sospensione tra verosimile e fantastico, ma determinata storicamente, nel corpo principale degli avvenimenti, nel periodo compreso tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento in una Tailandia in trasformazione, in cui la giungla, sebbene ancora resistesse in alcune zone, veniva anche lì già erosa dalle piantagioni di riso per via del modello di sviluppo modernizzante che avrebbe provocato la seguente situazione:

"Il villaggio sarebbe stato abbandonato da tutti e niente poteva opporsi al suo abbandono. La gente del luogo e i suoi discendenti sarebbero stati costrettti a diventare schiavi, perché nel corso di quell'anno perfino i titoli di proprietà delle terre che erano in possesso della gente di Prek Nâm Deng sarebbero passati in mani estranee, ed egli sapeva bene che Prek Nâm Deng si sarebbe trasformato in un campo da golf, dove i figli e i nipoti della gente del villaggio avrebbero fatto i caddie. Certi capitalisti venuti da fuori avrebbero fatto la coltivazione intensiva di funghi e i figli e i nipoti del villaggio sarebbero diventati dipendenti di quelle aziende di coltivazione dei funghi, o ci sarebbero stari stabilimenti balneari intorno a un lago artificiale che si sarebbe chiamato Praek Nam Daeng Lake View, e i figli e i nipoti del villaggio vi avrebbero fatto i giardineri e i sorveglianti" (pp. 39-40).

Questo romanzo, dunque, testimonia di una transizione storica, mettendone in rilievo le conseguenze negative e critiche; attinge al serbatoio costante del folclore nelle tecniche di scrittura e nel rapporto con la natura; si misura con tragedie umane, ambientali e sociali, mantenendo un registro veloce e leggero che imita il parlato, come se chi compone stesse discorrendo, con periodare lungo che non annoia per questo suo tratto colloquiale.

L'autore (nato nel 1957 in un villaggio vicino a Bangkok e laureato in lingua e letteratura inglese), resta nello sfondo, adeguatamente distante; sa essere moderno mentre si pone in continuità col mondo arcaico.

[Roberto Bertoni]