14/06/07

Jean Cocteau, ORFEO


[Eurydice and Orpheus in the mirror. Foto di Marzia Poerio]















Testo teatrale. Titolo originale ORPHÉE (1927), traduzione di Marisa Zini; nota introduttiva di Gian Renzo Morteo; Torino, Einaudi, 1963 (2005).


In un tempo e spazio del Novecento, contemporanei alla stesura del testo, Orfeo, noto poeta, è in rotta con Aglaonice, una delle Baccanti, la quale avvelena la moglie di lui, Euridice.

Quest'ultima si era a sua volta invaghita platonicamente di un vetraio, Heurtebise (il quale si rivelerà, alla fine, essere l'"angelo custode" della coppia).

La Morte, coadiuvata da due aiutanti, Azraele e Raffaele, dopo aver compiuto un rituale, passa attraverso uno specchio per portare Euridice nell'oltreterra.

Con l'aiuto di Heurtebise, indossando un paio di guanti dimenticati dalla Morte, Orfeo attraversa lo specchio, che nel passaggio muta da solido in fuido. Riporta Euridice in vita; non deve guardarla, ma lo fa, intenzionalmente, come rivela all'angelo, perché battibeccavano e lei lo innervosiva.

Lo specchio viene fracassato da pietre che lancia una folla ostile a Orfeo, attizzata dalle Baccanti. Orfeo ne viene dilaniato, resta la sua testa.

Euridice, riapparsa materializzandosi dallo specchio, si riprende il corpo di Orfeo e lo conduce con sé nell'altra vita, lasciando nel salone la testa, che verrà raccolta da un commissario sopravvenuto per le indagini sulla morte del poeta. Si scopre che il cavallo era stato ucciso da Euridice e rappresentava il "diavolo" (p. 57). I due coniugi, assieme a Heurtebise, nelle ultime battute si apprestano a pranzare.

Pur restando sul filo del racconto classico, si tratta di un'opera da ascrivere senz'altro dentro la modernità.

Definita dall'autore "tragedia di un atto e un intervallo" (p. 11), è suddivisa in due parti, col sipario che si abbassa e subito si rialza, ad indicare un passaggio di situazione, forse anche a contestare la tradizione della suddivisione tradizionale dei lavori teatrali.

Gli eventi fantastici vengono resi come dati di fatto, accaduti a individui che si comportano come prestigiatori più che attanti solenni o sacrali.

I dialoghi insistono sulla quotidianità. La conversazione è colloquiale. Il linguaggio ridimensiona adeguatamente il mito antico, privandolo di tentazioni declamatorie, di sentimentalismi di ascendenza romantica e di tentazioni neoclassiche, semmai facendolo rivivere come riscoperta attualizzata nell'ambientazione ed eterna nei suoi simboli, anch'essi però rinnovati e in punti chiave mutati.

È in parte assimilabile al surrealismo per la presenza di elementi non facilmente decifrabili: soprattutto, come rileva Morteo nell'introduzione, il cavallo disposto in una nicchia dell'ampio salone che, all'interno di un'abitazione, costituisce l'ambiente unico della rappresentazione.

L'allegoria equina, oltre che rappresentare il demonio sulla banda interpretativa del rapporto tra il bene e il male, come sembrerebbe suggerire l'autore contrapponendo il diavolo all'angelo, è riferibile all'inconscio. Qualche riferimento alla psicanalisi junghiana consente un'interpretazione possibile del testo.

Ci preme in tale campo lo specchio, che è simbolo per eccellenza dell'identità. Quanto si svolge per il tramite dello specchio è un tentativo difficoltoso di congiunzione, parrebbe, tra le componenti del Sé: l'Ombra, ovvero la parte meno nota dell'inconscio, più luttuosa e negativa (simbolizzata nel lavoro teatrale dalla Morte); e l'Anima, cioè il femminile nel maschile, la parte creativa e protettiva dell'inconscio nei suoi aspetti positivi, ma non priva di lati negativi, qui la gelosia e il magnetismo che spinge verso Thánatos.

L'Anima: nei suoi confronti si manifesta la nostalgia della perdita e il desiderio di riassociarsi al sentimento, alle origini e alla morte che ha preceduto la nostra vita attuale. Non a caso lo specchio che attraversano Euridice, Orfeo e la Morte diventa fluido nel passaggio, come il liquido filogenetico da cui proveniamo in quanto individui e l'oceano ontogenetico al quale appartenemmo ancestralmente in quanto frammenti di vita del pianeta Terra.

Sembra che l'attrazione verso l'Anima si attui in Cocteau attraverso un'infatuazione per l'Ombra, con la delittuosità che ciò comporta (l'uccisione intenzionale di Euridice) e prima di raggiungere un equilibrio in una vita diversa con l'Anima e con l'Angelo, questi essendo forse allegoria dell'Ego assieme allo stesso Orfeo, il quale rappresenta anche il fattore eroico, necessitato a compiere un'impresa significativa per scoprirsi e identificarsi, sbagliando e tornando poi sui suoi passi, pagando insomma un prezzo per mutare.

Non tutto ciò che si trova nella pièce di Cocteau torna, si badi, in questa ipotesi, com'è giusto che sia dell'arte, data la complessità pluridimensionale che essa possiede.

Limitandoci però all'orizzonte settoriale della nostra indagine, osserviamo solo che Orfeo, in quanto archetipo, cantore e poeta, è qui portatore del processo junghiano di individuazione. Cocteau proietta tale possibilità del mito verso la modernità, convogliandola attraverso il simbolo dello specchio: in parte, dunque, l'archetipo infero si associa al narcisismo, come osserva Giuseppe Pucci in un'analisi della versione cinematografica LE TESTAMENT D'ORPHÉE [1]; ma in parte lo scrittore francese propone quanto con Auerbach potremmo chiamare un aspetto "figurale": lo specchio esprime in definitiva la modernità stessa; ed è in essa che ci riconosciamo come persone la cui identità si decompone e si ricompone nel presente incerto.


[1] "[...] diciamolo, questo Orfeo è un egocentrico che ama solo se stesso, [...] è un Narciso", in ORFEO E LE SUE METAMORFOSI. MITO, ARTE POESIA, a cura di Giulio Guidorizzi e Marxiano Melotti, Roma, Carocci, 2005, p. 171. Cfr. CARTE ALLINEATE, 5, in data 17-5-2007.


[Roberto Bertoni]