19/02/07

TEN CANOES: miti e storie degli aborigeni



[Mapping the Sacred: Uluru, Australia. Foto di Marzia Poerio]





TEN CANOES, con la regia di Rolf de Heer (2006), è un film su come e perché si raccontano storie, sulla società arcaica e sulla continuità della tradizione.

L'idea del film è nata da una foto di canoe aborigene dell'antropologo australiano Donald Thomson; tra i protagonisti ci sono i vogatori di quelle imbarcazioni, una parte dei quali mantiene i nomi reali anche nella pellicola; alcuni degli attori sono Richard Birrinbirrin, Johnny Buniyira, Peter Djigirr, Frances Djulibing, David Gulpilil, Jamie Gulpilil, Crusoe Kurddal, Peter Minygululu. La sceneggiatura è stata prodotta tramite consultazione con la popolazione di Ramingining.

All'inizio, mentre la cinepresa scorre dall'alto lungo il territorio di acque e eucalipti della boscaglia della zona di Arnhem in Australia (luogo degli aborigeni in cui è stato girato il film), la voce fuori campo di David Gulpilil narra una storia, che "non è la vostra, è la mia"; nondimeno a questo livello è rivolta a chi ascolta al di fuori della narrazione orale ed è restituita per immagini; di modo che alla fine "l'abbiamo vista", come ci comunica il narratore di cornice, intendendo di aver mostrato il passato ancestrale nella realtà dell'immaginazione (che il regista rende con l'occhio del cinema). Le storie servono in questo contesto a rivivere quanto la realtà dell'esperienza attuale non ci permette di vedere e a stabilire un legame con le origini perpetuando la memoria collettiva.

Il narratore, che si esprime in inglese, alterna durante il film a questa cornice altre due storie, i cui personaggi parlano la lingua Matha degli aborigeni Yolngu.

La prima di tali narrazioni si sposta in bianco e nero in un indeterminato passato degli antenati, che costruiscono canoe, cacciano oche, cercano uova. Minygululu, sapendo che il fratello minore si è innamorato della più giovane delle sue tre mogli, decide di raccontargli una storia per fargli capire quali problemi possano nascere dal suo desiderio. Le storie hanno qui una funzione educativa e cautelativa, servono a insegnare le tecniche della cultura materiale e il senso dei comportamenti.

Il bianco e nero di quel passato si intercala al ritorno del colore in un mondo primigenio ancora più remoto in cui, nella seconda narrazione, un guerriero sposato con tre mogli ha un fratello minore che aspira alla più giovane delle tre donne; la seconda sposa scompare; ne nasce una disputa con tribù limitrofe accusate di averla rapita, si appronta una soluzione che condurrà alla morte del guerriero; la seconda moglie tornerà alla tribù, era stata rapita da individui diversi da coloro che si erano ingiustamente osteggiati accusandoli del ratto; il giovane potrebbe ora finalmente avere la ragazza che gli piace, ma ci sono ulteriori difficoltà. Questa storia insegna a non desiderare ciò che può provocare problemi; mette in rilievo contemporaneamente i rituali di guerra e di morte, la vita familiare, la magia: le storie hanno dunque una funzione antropologica di trasmissione delle norme sociali, qui come nel racconto in bianco e nero intervallato a quello più antico.

Si intrecciano molti fili (come direbbe Italo Calvino) nella struttura di questo film: quando il giovane che ascolta nel bianco e nero chiede al narratore di andare avanti col racconto, l'anziano lo avverte che le storie insegnano la pazienza.

Complesso ma dipanato con chiarezza cristallina, questo film notevole mette in luce la società arcaica e olistica con rispetto per la cultura protagonista, con sensibilità sociologica, con l'avvicendarsi delle tragedie e della sopravvivenza e anche con umorismo in varie situazioni.


[Renato Persòli]