20/02/07

PAOLO BERTOLANI: UNA GRAVE PERDITA



[Me. Foto di Paola Polito]



Il poeta Paolo Bertolani è mancato il 19 febbraio 2007. È una grave perdita per quanti lo hanno conosciuto personalmente e per la cultura italiana.

Su di lui ha scritto Paola Polito in CARTE ALLINEATE in data 1-2-07. Ritorneremo su di lui da queste pagine.

Per ricordarlo, oggi qui di seguito una recensione di uno dei suoi libri.

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Paolo Bertolani, RAITÀ DA NEVE, Novara, Interlinea, 2005

La poesia di Paolo Bertolani utilizza l'italiano ed il serrese, il dialetto de La Serra, un paese sopra Lerici (in provincia di La Spezia), un linguaggio che è stato in gran parte trascritto e elaborato in parte dal poeta stesso in anni di lavoro, costruendo un'opera che ha valore anche per questo significativo impegno linguistico oltre che per l'acuta partecipazione emotiva, la tematica oggettuale, di natura e personale, il recupero del mondo rurale, l'arco referenziale orientato tra modelli classici, Dante e i provenzali in particolare, e moderni da Leopardi a Montale a Caproni a Sereni, ma con la costituzione di un discorso in proprio, senz'altro di notevole validità. Bertolani è tutto meno che un poeta minore e regionalistico; la sua opera è imbevuta della dimensione del personale dentro il collettivo e del locale dentro il globale.

In RAITÀ DA NEVE siamo ancora una volta ai versi in dialetto tradotti dal poeta stesso in italiano con testo bilingue.
Le attività artigianali sono metafora e testimonianza di un mondo ancestrale che è scomparso, di cui oggi "sento [...] 'e gose morte" ("sento le voci morte") e "A'n parlo a te, che nó te pè capìe, / ché nó te gh'éi / quando la gave 'n nome nicò 'e prèe" (Ne parlo a te, che non puoi capire, / perché non c'eri / quando avevano un nome anche le pietre"), p. 84. Nonostante questa piccola mitizzazione (il nome delle pietre), non c'è nessuna caduta nel magico-orfico perché la nostalgia si accompagna all'ironia e alla consapevolezza che la perdita non è più recuperabile nel presente. Al contempo le attività tradizionali sono modernamente paragonabili all'arte stessa del poeta: "giardiniere" che pota i giardini (p. 7); visionario: "[...] quei sé océti fissi e stréti / chisà dónd'i miéve", "[...] quei suoi occhi fissi e stretti / chissà dove guardavano" (p. 9).

Quella del poeta è una voce interiore e rinnovata dall'attività memoriale; la parola góse (voce) è spesso ripetuta, ed è il titolo di uno dei testi, nel quale la voce parla dentro un'acqua millenaria per riemergere e rinnovarsi, proiettandosi tra il frinire delle cicale (cfr. GÓSE, p. 121).

Accanto a questa voce antica, junghiana, troviamo la capacità di modulare il suono e di vedere raffigurata nella figura della rondine: "quéla specie de rondinèla rèsa e negra: / ch'la te 'ndeva tuta en òci, / e nicò 'n góse, quando te m'lé disevi" ("quella specie di rondine rosa e nera: / che ti andava tutta in occhi, / e anche in voce, quando me lo dicevi"), p. 24

Alcuni quadri di questo libro emergono in parte leopardianamente (il grido del mentaiolo, come da un SABATO DEL VILLAGGIO, p. 11) e in parte altrove con reperti montaliani (il muro come limite, di altre raccolte, compare anche in questa: i "muréti / luntán", p. 11).

Nella descrizione del paesaggio, in questa raccolta in cui la memoria svolge un ruolo importante, si determina la scomparsa del passato, ma in esso si individua un ritmo esistenziale nonché un metalinguaggio. La neve è infatti "finzione" (p. 45); e si veda il silenzio che scandisce la presenza della parola, per cui la descrizione dell'oliveto e del mare di tanto tempo fa sono concretezza reale e al contempo linguaggio: "dar mae de uìvi fina a l'artro mae, / e l'éa per c'lo silensio / che di cose spaì l'e a pu càa" ("dal mare di ulivi fino all'altro mare, / ed era per quel silenzio / che delle cose sparite è la più cara"), p. 12.

Ricordando la propria natura terrestre e talora anche scanzonata ("a fiémo / ride 'r mondo", "faremo ridere il mondo", p. 27), quasi a deridere il mito mentre lo crea, la poesia di Bertolani è aperta sulla metafora, anche sul simbolo, che si delimitano paradossalmente dentro un'aneddotica che può essere paesana senza scadere nel bozzetto: con dichiarazioni sulla labilità tra i colpi di vanga assestati nella polvere in cui si muore: "E dond'andé ch'è l'ènca buio? / A vangàe da pórvia? / Ferméve, Giuà, che tanto se mèa" (E dove andate che è ancora buio? / A vangare della polvere? / Fermatevi, Giovanni, che tanto si muore") p. 19.

Luce/buio, vita/morte, presente/passato, presenza/sparizione, baldoria/lutto, costituiscono aree tematiche ripetute e ben enucleate, in un'atmosfera di attesa della fine e di incertezza: "Nó t'lè anca capì che oramai / gnente l'è pu segùo? / E donche, aia, alón, féme passàe / avanti che se fàghia tropo scuo" ("Non lo hai ancora capito che ormai / niente è più sicuro? / E dunque, aria, su, fatemi passare / prima che si faccia troppo scuro") p. 36. "Passare", "allontanarsi" sono parole-concetto che si ripetono (in particolare cfr. pp. 72-73). Incontriamo sordità e cecità rispetto a quello che oggi abbiamo di fronte (cfr. 'A NÈBIA, p. 87).

L'io esiste ed è concreto, narrante, memoriale, ma è non di rado la voce di altri, non del poeta scrivente, a esprimerlo. Talora il tu è l'interlocutore allegorico della poesia che raccoglie il sentimento con l'elaborazione della tecnica: "proprio avóa l'è anca 'a te góse / ch'la me toca drento. Come na man spèrta ch'la sa / donde / e come / tocàe" ("proprio ora è la tua voce / che mi tocca dentro. Come una mano sapiente che sa / dove / e come / toccare"), p. 50. C'è infine un'ammissone di fiducia: ciò che dura non è la vita, ma "'e parole da poesia" ("le parole della poesia), "che 'r tempo / i nó rièssa a massàe" ("che il tempo / non riesce ad ammazzare"), p. 53.

Persistenza della poesia, memoria e labilità della vita che tende verso la morte sono quindi i tre capisaldi del messaggio di questa raccolta, che sa suscitare sentimenti, interpretare una società e inserirsi con voce consapevole nell'alveo della poesia odierna, dimostrando che è ancora possibile proporre in positivo, con una semplicità apparente, acquisita col lavoro metrico e stilistico. È ancora possibile dire, dichiarare, lamentare senza cadere nel vuoto della parola fine a se stessa o di esasperati intellettualismi. La poesia è "[...] portàe cossì 'n viro come gnente / 'a luse [...]" ([...] portare così in giro come niente / la luce [...]"), p. 89.

[Roberto Bertoni]