Banana Yoshimoto, Il giardino segreto. Prima edizione giapponese 2005. Traduzione in italiano di Gala Maria Follaco. Milano, Feltrinelli, 2018
Si ritrovano in questo romanzo motivi
ricorrenti nella Yoshimoto del ventunesimo secolo: la rottura dei rapporti
amorosi, l’omosessualità, l’affetto platonico tra persone di generazioni
diverse, la magia e la divinazione, lo scorrere degli attimi sotto una patina
di riflessioni spesso banali sulla vita, che hanno il compito di arginare i
drammi personali, confermando il vuoto, forse, sotto un’apparenza di normalità
e spingendo verso l’accettazione della vita e del destino individuale.
Frattanto si danno simmetrie di situazioni capitate a personaggi diversi che si
risolvono in modi distinti, quasi a dimostrare che ogni cammino non conduce
necessariamente allo stesso fine.
La storia è lineare nella forma
narrativa in prima persona e diaristica, intrapresa dalla ragazza Shizukuischi,
assistente dell’anziano e malato sensitivo Kaede, coinvolto in una relazione
sentimentale col suo socio Kataoka. Shizukuishi si lascia col ragazzo
Shinchiro, che decide di occuparsi del giardino di Takahashi, un amico d’infanzia
venuto a mancare e della cui cui madre Shinchiro è innamorato. Atsuko, una ex
amante di Kaede instaura un rapporto di empatia con Shizukuishi. La
protagonista ricorda la nonna erborista che le ha lasciato in eredità un
corallo che l’attrae, per emotività e per una magia di una qualchje sorta,
verso Taiwan, il luogo da cui proviene. Riflessioni sul mondo, i sensitivi, la
tristezza e il flusso delle cose accompagnano la narrazione.
Qualcuna delle frasi banali buttate
lì come se fossero importanti, e che, proprio per questa loro posizione nel
testo, lo diventano, sconfiggendo la banalità mentre la enunciano: “è molto
meglio affrontare la verità, anche quando è dolorosa come una lacerazione della
carne” (p. 88); “quella donna somigliava
a una pianta. Aveva anche la determinazione delle piante” (p. 56); “ti sembrerà
banale, ma è importante fare esperienze divertenti: possono farti dimenticare
persino di essere malato” (p. 46); e le ultime parole del racconto: “naturalmente
le stelle, il profilo della montagna e il vento non mi risposero. Del vento
restava solo il soffio insieme al gorgoglìo dell’acqua” (p. 136).
[Roberto Bertoni]