25/06/17

Enrica Maria Ferrara, L’IDENTITÀ POSTUMANA DI ELENA FERRANTE, OVVERO L’ESPLOSIONE DELLA PENTOLA DI RAME NE L’AMICA GENIALE

In una recente analisi de I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante[1] ho messo in evidenza che Olga, la protagonista del romanzo, inaugura un nuovo approccio epistemologico ai concetti di soggetto e di realtà che poi si evolverà ulteriormente nel ciclo de L’amica geniale. Traumatizzata dall’abbandono del marito, Olga vede la materia disintegrarsi, perdere i suoi solidi contorni, uscire dai margini. Si tratta di un processo di decomposizione che riguarda un po’ tutti: soggetti umani e animali, oggetti inanimati, dispositivi tecnologici. La mia opinione in proposito è che tale processo – tra la “frantumaglia” degli scritti teorici e la “smarginatura” dei romanzi napoletani suggerisca una nuova configurazione della realtà nella quale, come afferma la filosofa Barad, “matter is substance in its intra-active becoming – not a thing, but a doing […] a stabilizing and destabilizing process of iterative intra-activity”.[2]

In questo nuovo mondo di fenomeni dinamici ed intra-attivi, l’agente umano non ha più il controllo del processo di conoscenza perchè quest’ultimo è il prodotto dell’intra-azione fra soggetti umani e animali, oggetti inanimati, dispositivi tecnologici: tutti dotati di un’agenzialità [agency] equipollente. Le tradizionali logiche causali utilizzate dal soggetto per dare ragione dei fenomeni, sono pertanto inutilizzabili.

Come ne I giorni dell’abbandono, anche ne L’amica geniale accadono fenomeni che sono inesplicabili dal punto di vista della logica tradizionale. Mi riferisco, ad esempio, all’esplosione della pentola di rame, episodio che accade poco dopo il famoso Capodanno nel quale Lina si accorge per la prima volta di soffrire del male della “smarginatura”. Se a Capodanno Lina aveva cominciato a vedere le persone fuoriuscire dai loro confini corporei e mescolarsi con la materia circostante, in un’orrida mistura di sangue, carne e materia inerte, l’esplosione della pentola di rame avviene indipendentemente da un agente umano e dunque costituisce un passaggio fondamentale nella rappresentazione della “smarginatura”: la prova che quell’orrenda realtà senza confini nè margini effettivamente esiste, senza bisogno di un soggetto che la pensi.

Lei, insomma, stava sola in cucina a fare i piatti ed era stanca, proprio senza forze, quando a un certo punto c’era stato uno scoppio. S’era girata di scatto e s’era accorta che era esplosa la pentola grande di rame. Così, da sola. Era appesa al chiodo dove normalmente si trovava, ma al centro aveva un grande squarcio e i bordi erano sollevati e ritorti e la pentola stessa s’era tutta sformata, come se non riuscisse più a conservare la sua apparenza di pentola.[3]

Non potendo essere attribuita ad alcun intervento umano,[4] l’esplosione della pentola di rame diventerà nel corso del romanzo il simbolo ed il significante di una realtà in cui gli oggetti interagiscono l’uno con l’altro e producono effetti su esseri umani ed oggetti inanimati indipendentemente dal fatto che esista o meno un soggetto di conoscenza in grado di conferire un senso a tali fenomeni.

Un altro esempio di radicale trasformazione della materia si verifica ne La storia del nuovo cognome, durante l’accesa discussione tra Rino, Gigliola, Pinuccia e Michele Solaro che non concordano se affidare o meno a Lina la gestione del negozio di scarpe in Piazza dei Martiri. In questo caso, l’improvviso cambiamento  molecolare riguarda l’auto-combustione del famoso pannello raffigurante Lina in abito da sposa, pannello su cui Elena e Lina erano intervenute rendendo irriconoscibile la foto originaria:

All’improvviso, non si sa come, il pannello [...] emise un suono rauco, una specie di respiro malato, e s’incendiò con una sfiammata alta. Pinuccia era di spalle alla foto, quando successe. La vampa le si levò dietro come da un focolare segreto e le lambì i capelli, che crepitarono e le sarebbero bruciati tutti in testa se Rino prontamente non glieli avesse spenti a mani nude.[5]

Varie spiegazioni, alcune delle quali di sapore decisamente magico-realista – come l’intervento diabolico o le fatture di Lina - vengono ipotizzate dagli astanti per questo episodio. A mio parere, però, ci troviamo di fronte ad un altro esempio del fatto che, nella realtà di Elena Ferrante, la materia è una cosa viva dotata di una propria finalità.

Che cosa c’entra tutto questo con la questione dell’identità? In che modo l’identità del soggetto ferrantiano può essere messa in relazione con l’esplosione di una pentola o l’improvvisa auto-combustione di un quadro?

Proviamo a rispondere con un’altra domanda. Se non esiste un soggetto umano a cui possano essere imputate queste azioni, è proprio necessario, in linea generale, un soggetto che abbia agenzialità? Se è la pentola ad essere responsabile per la propria esplosione, perchè cerchiamo a tutti i costi un agente umano che dia ragione di tale fenomeno?

Se applichiamo questo paradosso all’annoso dibattito sull’identità di Elena Ferrante e ci chiediamo se è necessario individuare un autore empirico dietro l’atto di scrittura, pare facile concludere che un libro non si scrive da solo. Nessuno mai avallerebbe una simile ipotesi. Un libro che si scrive da solo contravviene al principio di autorialità, a quella convenzione solidamente affermatasi più o meno dal tempo in cui Gutenberg inventò la stampa, nella seconda metà del Quattrocento: convenzione per la quale il nome dell’autore sul frontespizio corrisponde all’immutabile identità di un volume non più affidato alla fluida tradizione manoscritta che modificava il testo in dipendenza da vari fattori che comprendevano la disposizione umorale e fisiologica dello scriba. Insomma, dal Cinquecento in poi, all’immodificabile volume tipografico corrisponde la solida identità di un autore che lo licenzia per la stampa e così afferma: questo volume è mio, ne sono l’autore.[6]

Se Elena Ferrante ha deciso di sfidare questa convenzione ci sono almeno tre possibili ragioni, probabilmente tutte valide. Primo: il libro si è scritto da solo, ovvero non può essere attribuito ad un singolo autore ma è il frutto di una collaborazione tra individui (un team di specialisti, gli editori, un marito e una moglie). Secondo: il libro, dopo essere stato scritto, diviene un’entità autonoma, dotata di una propria vita separata da quella del suo autore. Questo è quello che Ferrante ha predicato da sempre. Dunque, benchè esista un autore in carne ed ossa, costui si comporta come un genitore biologico che abbandona il proprio figliolo sulle scale di un orfanatrofio. Terzo: l’autore ritiene che in questa nostra era digitale, socio-mediatica e postumana, non possiamo continuare ad onorare un principio codificato seicento anni fa, quando la stampa rappresentava quella rivoluzione copernicana che consentiva di collegare un individuo determinato, l’uomo vitruviano della tradizione umanistica, o almeno il suo nome, all’oggetto libro.

Se prendiamo per buona questa terza ipotesi, che non esclude le altre, le conseguenze che ne derivano sono esattamente quelle che poi, in fin dei conti si sono verificate. E cioè che l’autore, lungi dal volersi realmente nascondere, ha voluto semplicemente giocare a nascondino con il lettore, istigandolo ad interrogarsi sulla questione dell’identità. E quale sarebbe la motivazione profonda del comportamento di Ferrante? Quale imperscrutabile istinto l’avrebbe portata a collocare davanti al lettore una pentola che esplode da sola, un quadro che va in fiamme, un libro senza autore?

A me pare che la risposta a questa domanda sia ancora una volta abbastanza semplice e per questo, forse, generalmente trascurata. Se l’obbiettivo di Ferrante è quello di separare il fenomeno dal soggetto umano e conferire agenzialità all’oggetto, ciò che davvero preme all’autrice è che il lettore si chieda nel corso della lettura: chi è il soggetto? Esiste un soggetto? E se esiste, è un ente o un simulacro? E insomma: che cos’è quest’identità?

La mia ipotesi è che il processo di ricerca dei romanzi napoletani conduce alla scoperta della perdita di centralità del soggetto tradizionalmente inteso che lascia il passo al nuovo soggetto postumano, relazionale e vitalistico, emerso nella post-modernità con la fine dell’antropocentrismo. Vediamo come.

In principio l’identità, per Elena Ferrante e per il suo avatar Elena Greco, è l’io scritto, o ciò che di esso si consegna alla pagina. La narrazione conferisce un tempo, un significato ed una forma ad un “paesaggio” interiore “instabile” e frammentario: “La frantumaglia è [...] una massa aerea o acquatica di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo, senza l’ordine di una storia, di un racconto”.[7]

Nei romanzi napoletani, Elena Greco riesce a rimanere stabile e centrata grazie alla sua incrollabile fede nel potere della lingua scritta sulla materia informe e frammentaria che da lei viene letteralmente ricomposta e imbrigliata nella griglia della scrittura. Tramite un atto di auto-determinazione che ha le sue radici nel potere performativo della lingua, Elena Greco trasforma il cogito cartesiano – “penso dunque sono” – nell’audace enunciato performativo: “scrivo dunque sono”.

Viceversa, Lina è sopraffatta dalla paura di disintegrarsi in un’identità liquida nella quale i confini tra soggetto e oggetto, identità e alterità, non sono chiaramente definiti. Quella che Ferrante chiama “smarginatura” è appunto una peculiare affezione del soggetto cognitivo e senziente per la quale l’individuo esperisce la realtà circostante non come un oggetto di conoscenza che è esterno al soggetto umano, ma come un “fare” o un “divenire” in cui soggetto e oggetto sono radicalmente invischiati e co-implicati.[8] Dal flusso performativo di questa realtà che si comporta come un conglomerato di attività agenziale in cui tutti gli enti possiedono la stessa responsabilità nella produzione dei fenomeni, Lina è simultaneamente respinta e fatalmente attratta, tanto da arrivare a desiderare la propria cancellazione.

Ecco perché Lina deve dare ad Elena una forma scritta: “io che ho scritto mesi e mesi e mesi per darle una forma che non si smargini, e batterla e calmarla, e così a mia volta calmarmi”.[9]

Se Elena “scrive” Lina perchè l’identità della sua amica geniale non venga sopraffatta dall’intrusione della materia umana, animale, vegetale ed addirittura elettronica (il computer che da un certo momento in poi rappresenta il suo alter ego) che preme ai confini, qual è l’alterità da cui Elena si difende, la ‘frantumaglia’ che scongiura attraverso la parola scritta?

Naturalmente quella di Lina, dalla cui identità si sente assediata perchè rischia continuamente di confondersi con la sua: E la sua vita si affaccia di continuo nella mia, nelle parole che ho pronunciato, dentro le quali c’è spesso un’eco delle sue, in quel gesto determinato che è un riadattamento di un suo gesto, in quel mio di meno che è tale per un suo di più, in quel mio di più che è la forzatura di un suo di meno”.[10]

Sostenitrice della filosofia della differenza, Ferrante pare avallare con la sua epica narrazione dell’identità, un principio fondamentale predicato da Gilles Deleuze secondo il quale l’identità non può considerarsi come un concetto primario al quale il principio di differenza si opporrebbe come antinomico. Capovolgendo il paradigma dell’identità e sostituendolo con quello della differenza, Deleuze finisce per negare che l’essenza del soggetto possa consistere nella sua identità e postula il principio di differenza come elemento primario nella definizione dell’identità. Dunque, l’identità è il prodotto della relazione tra due (o più) elementi differenziali.

Qual è la conseguenza di questa complessa speculazione filosofica se la utilizziamo come chiave di lettura dei romanzi napoletani di Elena Ferrante? Se applicata ai due personaggi di Lina ed Elena, la nozione deleuziana di differenza ci porta a dedurre che nè Elena nè Lina hanno una propria identità primaria. Sono invece due differenziali che producono la rispettiva identità: un’identità che vive in bilico sui margini, in una zona anonima percorsa dalla traccia della scrittura. Proprio come l’autrice il cui nome compare in copertina.

Quella che i lettori finiscono col trovare nei romanzi napoletani è allora un’identità postumana che emerge dalla dissoluzione del soggetto tradizionale, quel soggetto che – come Elena Greco – è tenuto insieme da un consapevole atto di auto-riflessione fondato su un pensiero di stampo dualistico (“penso dunque scrivo”). Mi sembra opportuno concludere questa riflessione con una citazione di Rosi Braidotti sul soggetto postumano che potrebbe essere stata scritta dall’amica geniale Lina Cerullo: “What we humans truly yearn for is to disappear by merging into this generative flow of becoming, the precondition for which is the loss, disappearance and disruption of the atomized, individual self”.[11]




[1] E. M. Ferrara, ‘Performative Realism and Posthumanism in The Days of Abandonment’, in The Works of Elena Ferrante. Reconfiguring the Margins, ed. by G. Russo Bullaro and S. Love (New York: Palgrave Macmillan, 2016) pp. 129-157.
[2] K. Barad, ‘Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter’, Signs (University of Chicago Press) 28.3 (2003), 801–831 [822]. Web. 12 January 2017.
[3] E. Ferrante, L’amica geniale (Roma: E/O, 2011), p. 224.
[4] Alla madre che l’accusa di averla rotta, Lina replica che una pentola, “anche se cade, non si spacca e non si deforma a quel modo” (Ibidem).
[5] E. Ferrante, Storia del nuovo cognome (Roma: E/O, 2012), pp.139-40.
[6] Sulla transizione dall’oralità alla scrittura, cfr.: G. Alfano, Nelle maglie della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile (Napoli: Liguori, 2006).
[7] Elena Ferrante, La frantumaglia (Roma: E/O, 2014), p. 95.
[8] La mia impostazione teorica si basa sul realismo performativo o agenziale di Barad second cui “things do not have inherently determinate boundaries or properties, and words do not have inherently determinate meanings” (K. Barad, ‘Posthumanist Performativity’, cit., p. 813).
[9]Elena Ferrante, Storia della bambina perduta (Roma: E/O, 2014), p. 466.
[10] E. Ferrante, Storia del nuovo cognome, cit., p. 337.
[11] R. Braidotti, The Posthuman (Cambridge: Polity Press, 2013), p. 136.