13/02/17

Cristina La Bella, TRA INCUBI, SOGNI E PAURE: I RACCONTI DEL GUANTO NERO DI LIBERO DE LIBERO

“Se dovessero domandarmi la genesi dei miei racconti, non potrei rispondere che citando un passo di Thomas Mann nel Doctor Faustus: “La natura stessa è troppo piena di produzioni a sorpresa che danno nel magico, di capricci analitici, di allusioni semivelate e accennanti stranamente a un mondo incerto perché i devoti nella loro pudica moderazione, non debbono scoprire in queste occupazioni una temeraria trasgressione”[1].

Così nel suo Diario, Libero De Libero spiega l’origine de Il guanto nero, uno dei suoi libri meno noti, scritto nel 1934 (fatta eccezione per la Lunghissima notte, che fa da introduzione al Taccuino orientale di Fabrizio Clerici, che è del ’55) e dato alle stampe, quasi vent’anni dopo, nel novembre del 1959. Non del lirico puro, come amava definirlo la critica ufficiale, ma del De Libero narratore, autore di romanzi quali Amore e Morte (1951) e Camera oscura (1952), e di raccolte di racconti come Malumore (1969), vorrei discorrere. Libero De Libero si sa, nasce poeta, è tra i maggiori esponenti dell’Ermetismo degli anni Trenta, autore di meravigliose sillogi, fra le quali Scempio e lusinga (1950-1956), Di brace in brace (1956-1970), con cui si aggiudica nel ‘71 il Premio Viareggio nella sezione poesia, e Circostanze (1971-1975). Influenzata agli inizi da Ungaretti, la sua poesia, che risente fortemente della visionarietà di Quasimodo - basti pensare a Solstizio del 1934 - si allontana poi dalla scuola ermetica per giungere ad altri lidi: de Libero diviene, come lo definisce Gian Franco Contini, “tra i migliori rappresentanti di un vero e proprio surrealismo italiano”. Ed è di quest’ultima esperienza artistica che vorrei parlare, entrando in punta di penna nei racconti de Il Guanto nero. Pubblicato dal Sodalizio del Libro a Venezia, il volume, costituito da ventisei racconti brevi e da cinque illustrazioni di Fabrizio Clerici, accoglie storie non molto lunghe, con poca trama, privi del cosiddetto messaggio che a tutti i costi si vuole trovare nella narrativa contemporanea[2] scrive Anna Maria Scarpati nel volume monografico Libero de Libero. Effettivamente, in questi raccontini grandi avvenimenti non ce ne sono, proprio come nella narrativa buzzatiana, l’autore lavora fuori dalla pagina, lasciando al lettore il corroborante disturbo di riflettere su quanto ha letto.

Tra il De Libero poeta e il De Libero prosatore lo scarto è notevole. Dimenticate il sognatore d’estate, l’aedo mediterraneo, le piante, gli alberi, i fiori profumati, la pianura che odora d’arancio, il verde meraviglioso delle colline, l’essenza dei pini al mattino, le vuote speranze, i ricordi mai abbandonati, le occasioni perdute… l’immagine dell’amata che si chiama Ciociaria, la donna di pelle fina, protagonista della poesia di De Libero. Ne Il guanto nero tutto appare nebuloso, i paesaggi sono indefiniti quanto i personaggi, che non hanno identità, figurine appena abbozzate, che abbandonano l’oscurità giusto il tempo di mostrare al lettore un lampo di vita. Lo sfondo - torno a ripetere - è spettrale, tetro, claustrofobico addirittura in alcune prose. È lo scenario degli incubi. Per Giorgio Vigolo fu coniata l’etichetta di “barocco nero”[3], espressione che designava la capacità di fotografare le atmosfere lugubri e luttuose, e che potrebbe andar bene anche per Libero De Libero. Lo stesso Enrico Falqui scrisse, infatti, che la narrativa dello scrittore originario di Fondi sovrabbondava di elementi macabri, soprattutto nella raccolta de Il guanto nero.  De Libero registra sulla pagina le angosce, le pulsioni e le paure che popolano l’area più oscura di noi stessi. Queste squisite prose di De Libero ci danno la misura della sua arte intesa a sottolineare quel sorprendente inconscio che è in noi[4]. Storie di gente maligna, violenza gratuita, atti depravati e fuori misura, che disorientano il lettore, fino a stordirlo e spaventarlo. Come negli horror più feroci, chi legge, partecipa all’ansia del protagonista senza storia, senza passato o futuro, senza identità[5]; arriva perfino a immedesimarsi in lui perché i racconti di De Libero prendono avvio da situazioni quotidiane: un medico prende la corriera per recarsi in paese, una ragazza esce per la prima volta da sola, un uomo perbene si reca ad una festa in casa di amici. Quel che atterrisce ne Il guanto nero è l’irruzione della crudeltà, proprio lì dove non la immagineresti. Da questo sbigottimento deriva quella che, a proposito della narrativa di Dino Buzzati, veniva chiamata “sorpresa a rovescio”. Difatti, se si esclude un paio di racconti, si può dire che lo scrittore ciociaro non imbastisca il discorso giocando sulla suspense. Egli non crea quello stato di tensione dovuto al succedersi di eventi sfavorevoli e complicati, tutt’altro. Conosce il lettore e le sue debolezze, sa dove pungerlo e così lascia esplodere la violenza inaudita nel momento della storia, in cui mai avresti pensato di trovarla. Egli in questi racconti mette in fila come soldatini tutte le nostre ossessioni: il timore di essere inseguiti nel cuore della notte senza ragione, il dubbio di essere scoperti e giudicati per una colpa commessa e in ultimo, la paura delle paure, la morte, quella che può cogliere di sorpresa come una serpe strisciante. Nell’introduzione leggiamo: “Nella vita di ognuno c’è una zona in cui la realtà sfoca nell’incubo o s’infrange nello straordinario. […] Poiché, sì, le favole sono belle, attraenti, ma guai se non se ne penetra il significato”[6].

Il linguaggio asciutto, essenziale e scheletrico riduce al minimo il gap fra parola e azione, anche perché l’autore vuole riprodurre la l’automatismo naturale del mondo onirico. Grossomodo, si può affermare che nell’accostarsi ad un certo tipo di narrativa, quella appunto a cui appartiene Il guanto nero, il lettore si involve, regredisce, fino a tornare all’infanzia, la stagione, durante la quale si crede di scorgere al buio un mostro, pronto a balzare sul letto. Giacché si è parlato di infanzia, mi pare opportuno riflettere sul perché questi racconti de Il guanto nero non siano da ritenersi delle fiabe in senso stretto. Come osserva Silvana Cirillo:

“E anche dove il racconto piega più esplicitamente sulla fiaba, con protagonista la principessa ricca, come habitat il vecchio castello, come personaggi tanti animali parlanti e mille topi incantati dalla musica, come ne La principessa dei topi, esso assume subito una piega inquietante, ove l’assurdo prende il posto del favoloso”[7].  

In effetti, le pagine di De Libero trasudano un doloroso senso di morte, che mal si sposa con la narrativa per l’infanzia. Vero è, che le favole dei fratelli Grimm e di Andersen, tanto per citare i più famosi, non risparmiavano ai giovani lettori scene brutali e violente, assai lontane da quelle, cui siamo abituati per via del riadattamento cinematografico operato da Walt Disney. Si pensi soltanto alla sirenetta, la quale non solo alla fine della storia muore, ma, che, disposta a tutto pur di avere le gambe, accetta che la strega del mare le tagli la lingua. I racconti di De Libero non possono essere definiti delle fiabe per due motivi, benché apparentemente ne posseggano le fattezze: in primis perché a far da padrone non è la magia, ma l’assurdo. La potenza del surrealismo risiede proprio in ciò: questi scrittori rinunciano alle fate, agli orchi e agli gnomi, perché hanno compreso che il meraviglioso risiede ovunque. La bacchetta magica non serve più, ad affabulatori come Savinio, Delfini o De Libero basta la penna. In secondo luogo perché manca il lieto fine, a cui ci ha abituati Cenerentola &Co. Come scrive Bruno Bettelheim: “Le fiabe assicurano ai bambini che alla fine potranno avere la meglio sul gigante: vale a dire che possono diventare grandi come il gigante e acquisire gli stessi poteri. Sono queste le possenti speranze che ci rendono uomini”[8].

Ora è chiaro che ne Il guanto nero, il discorso è un altro. Innanzitutto De Libero non si atteggia a mo’ di genitore (non ci dimentichiamo, infatti, che la letteratura surrealista è “femminile”, nel senso che è accogliente e protesa al cambiamento, e che di padri ingombranti non sa che farsene!), è invece più simile al bambino, che, tra l’altro, è insieme protagonista e oggetto conteso del quinto racconto intitolato Senza parole. Qualcuno potrebbe obiettare che molte fiabe cominciano in modo realistico. Si pensi ad Hansel e Gretel ad esempio. In apertura troviamo due genitori poveri spaventati circa il futuro dei propri figli. Un attacco che tuona, oggi, attuale più che mai, e che potrebbe comparire su qualunque giornale. Tuttavia, a scansare ogni dubbio resta il fatto che nella fiaba la realtà quotidiana sia continuamente permeata di magia e incanto, aspetti entrambi assenti nei raccontini di De Libero, che ne conserva invece soltanto alcuni immagini, i più simbolici, forse, come la stanza segreta, che cela, in realtà, un cadavere come leggiamo nel racconto Brutta gita, e che richiama alla memoria la camera di Barbablù, dove non bisognava entrare, perché nascondeva i corpi delle donne assassinate dall’uomo: “Coperto di fiori, giaceva il cadavere di un vecchio, e intorno gli vacillava la stanca luce del cero. Come nei sogni Alessio non ebbe la forza di gridare”.

Termina così la giornata del protagonista, il quale vedendosi negata l’ospitalità dell’amico Steno, è costretto a dormire nella cella spartana di una chiesa. Scoperto un morto in putrefazione nelle vicinanze, decide di gettarsi in un angolo ad attendere l’alba. Qui, come anche in Camera d’albergo, la domanda lecita è una: è tutto vero o il protagonista sta sognando?

Del genere fiabesco, però, una qualche altra traccia vi è rimasta. Si guardi soltanto al racconto La Specchiera, in cui la protagonista Nice, la più giovane zitella della famiglia composta da quattro sorelle ormai attempate e nubili, chiusa in casa, novella Dorian Gray, ha come unico amico uno specchio, nella cui immagine ella assiste impotente allo scorrere inesorabile degli anni, di cui ella non ha fatto tesoro. Qui, come altrove nella raccolta, De Libero è come se volesse dire che non è il tempo ad essere nemico dell’uomo, ma è quest’ultimo ad essere il più grande nemico del tempo. La specchiera, protagonista dell’omonimo racconto, richiama alla mente sia l’opera del ’22 di Massimo Bontempelli si  Through the Looking-Glass, and What Alice Found There (1871) di Lewis Carroll, che tanto era piaciuto agli scrittori surrealisti, ma anche il demoniaco parlante specchio della fiaba di Biancaneve dei fratelli Grimm.

Ai limiti del perturbante, vicino alla narrativa di Franz Kafka, in particolar modo de Il processo, è invece il racconto, che apre il libro, Sentenza, dove i personaggi non hanno nome, ma soltanto sostantivi che ne indicano i rapporti di parentela. Dietro all’immaginario banco degli imputati, vi è l’adultera, la quale verrà condannata dal suocero ad un esilio forzato.

De Il guanto nero, il racconto certamente più agghiacciante è però Il forestiero, in cui il protagonista, un medico rispettabile e conosciuto da tutti, sentendo dei rumori in un’abitazione di sua proprietà, decide di entrarvi. Trova sul tavolo della cucina un paio di grosse forbici, le impugna e con impeto entra nella stanza, dove un uomo, il forestiero appunto, sta abusando di una ragazza indifesa. Lo stupro, che compare anche in alcuni raccontini di Tommaso Landolfi, diventa la massima espressione della sopraffazione. La stessa casa, che psicanaliticamente richiama all’utero materno, diviene teatro dell’orrido, creando altresì una struttura a scatola cinese, che volutamente riproduce alcuni degli incubi più comuni: il terrore di ritrovarsi un estraneo nella propria dimora, la paura di subire una violenza, l’angoscia di essersi macchiati inconsapevolmente di un delitto.

Ogni lettore assolve lo stimato medico, che, tuttavia, da vittima è divenuto carnefice a seguito delle sfavorevoli circostanze, proprio come nel celebre romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo. Per terminare vorrei analizzare il racconto che dà nome alla raccolta Il guanto nero, in cui il protagonista, dopo essersi recato ad una festa di una sua cara amica benestante, si ritrova a dover discutere con un odioso maggiordomo, che gli nega l’ingresso in villa, poiché sprovvisto di invito. In realtà tutta la situazione è di per sé strana: l’ambiente appare oscuro e sconosciuto all’uomo, che avvilito e basito al contempo, accetta di entrare in sala non da ospite, ma da cameriere. L’atmosfera ricorda certamente i Sessanta racconti di Dino Buzzati, pubblicati nel 1958, in particolar modo la vicenda dei Sette Piani. Di squisito sapore buzzatiano è anche il titolo di un’altra novella de Il guanto nero: Il presente è un’attesa, che pare rievocare il clima di rassegnazione e angoscia del romanzo Il deserto dei tartari.

Questo si potrebbe dire dunque: lo sgomento dell’oscurità lascia spazio alla fiducia nel mattino successivo. Potremmo leggere, infatti, Il guanto nero come un’angosciosa lunghissima notte.


[1] LIBERO DE LIBERO, Borrador. Diario 1933-1955, Milano, Rai-Eri-Mondadori, 1994.
[2] ANNA MARIA SCARPATI, Libero de Libero, uomo, poeta, narratore, Roma, Kappa, 2013.
[3] GIUSEPPE LUPO, Poesia come pittura: De Libero e la cultura romana, 1930-1940, Roma, Vita e Pensiero, 2002.
[4] ANNA MARIA SCARPATI, Libero de Libero, uomo, poeta, narratore, Roma, Kappa, 2013.
[5] SILVANA CIRILLO, Sulle tracce del Surrealismo italiano, Padova Esedra, 2016.
[6] LIBERO DE LIBERO, Il guanto nero, Venezia, Sodalizio del Libro, 1959.
[7] Cfr. nota 5.
[8] BRUNO BETTELHEIM, Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 2015.