29/03/16

Piero Pieri, UN AMORE CRUDELE

[Human beings in the spring (Milan 2016). Foto Rb]


Amara, la Bellezza, scriveva Rimbaud in apertura di Une Saison en Enfer – in un passo che Piero Pieri ha posto in epigrafe al suo romanzo Un amore crudele (Marsilio, Venezia 2014). Ho ucciso in me ogni speranza, continuava il giovane genio; invocava Satana, disdegnoso di ogni “facoltà descrittiva o istruttiva”, e affidava alla posterità qualche pagina del suo “quaderno di dannato”.

Questa sorta di sottile sadismo letterario, di crudeltà fredda ed esangue che risolve e dissolve ogni creatura in fantasma, ogni realtà e ogni tempo in sensuale infingimento e in immaginazione voluttuosa, è l’essenza dello spirito e della concezione che attraversano le pagine del romanzo.

Insegna Lacan lettore di Sade che il piacere dimora nel fantasma; piacere e dolore hanno un termine nello “svanire del soggetto” – lo svanire, il divenire impalpabile del soggetto, come dell’oggetto, nell’immaterialità della finzione letteraria – e qui viene in mente la letteratura come menzogna teorizzata da Manganelli (in fondo il corpo, il corpo che soffre e quello che gode, dissolto nella jouissance o martoriato dalla tortura, è infine, in Sade, specie in Aline et Valcour, come nella poesia moderna da Baudelaire in poi, pura e mera “vibration”, “choc”, “irritation” delle facoltà percettive, fascio di suggestioni evocazioni allucinazioni, naufragare del soggetto nelle profondità insondate dell’Altro e del Sé – e gremito di specchi, che moltiplicano le immagini del piacere e del dolore tramutandoli in raffinati e inesauribili simulacri intellettuali, è il salotto della Philosophie dans le boudoir).

Una selva di specchi, maschere, fantasmi appare anche il mondo in cui si muove il protagonista di questo romanzo; romanzo difficilmente inquadrabile e definibile - forse una sorta di Künstlerroman, di “romanzo d’artista” sottilmente e amaramente parodiato e abbassato, parabola di una vocazione intellettuale ed estetica che finisce per essere demistificata come puro pretesto di un egoistico piacere che pure è, nel contempo, forza vitale, desiderio di persistenza, infine sostrato e sostegno della stessa scrittura letteraria, la cui energia e la cui scintilla, spentesi nel protagonista, si trasfondono nell’autore, in un gioco di rispecchiamenti.

Venata di disincanto e d’amara ironia è anche la sequenza di madre e figlia come oggetti di desiderio e d’appagamento – procrastinata, preservata, la seconda, a lungo, in una sorta di ovidiana delectatio morosa, di esistenziale piacere di un’attesa lunga quanto una vita e quanto un destino –; l’amante di vent’anni più anziana “trasmette il senso dell’indefinito”, valica gli schemi temporali, le barriere convenzionali, e proprio per questo proietta sui personaggi e sul loro intreccio come un’ombra cupa, discesa da lontano, che li fa essere “sottoprodotti della morte” – c’è, nella donna, come l’ eco di un dolore e di un’umiliazione lontani, il “mormorio dell’ignobile”, una triste sequela d’”immagini frammentarie” che riaffiorano dagli “anfratti di una malinconia senza tempo” – dai vasti ed oscuri “campi della memoria”, dai “cubicoli della mente”, avrebbe detto Agostino –; ed ella diviene, anche, vecchia-bambina, un corpo ormai presago del disfacimento da scrutare e frugare, quasi come morto, con un misto di taciuta pena e d’inumano compiacimento.

Ma anche la Storia, la Grecia antica e moderna – quella di Olimpia e dei misteri demetriaci come quella cupa e oppressiva dei Colonnelli , animata non più dal sadismo esistenziale, infine innocente, del desiderio intimo, ma dal Sadismo sistematico ed istituzionalizzato di un potere dispotico ed onnipresente – si insinuano, con la loro temporalità più alta, sfasata, nel tessuto di memorie che è questo romanzo.

Olimpia è “un peso lieve, un ingombro di memorie”, quasi l’allucinazione di una parte di memoria che “fluttua nell’assenza” – una Grecia estranea, altra, remota, lacerata, in cui la storia si confonde con l’intemporalità della natura, per darsi, un po’ come in certi versi di Seferis o dell’ultimo Quasimodo, per frammenti irrelati, per lineamenti discontinui ed irrecuperabili.

Infine, “tutto è depravazione”. Ma a riscattare la depravazione del mondo – l’opacità del presente, la vanità, l’ambiguità o la falsa coscienza dell’impegno politico, il grigiore dei luoghi, i compromessi, le finzioni e le crudeltà sottili dei rapporti umani e amorosi, l’inafferrabilità dei destini con le loro derive e i loro naufragi – sembra essere proprio la letteratura, che pure ne trasmette la consapevolezza lucida e irrimediabile.

Nel romanzo si erge e si dispiega, su tutto, forse come vero messaggio, essenziale e ultimo, la sicurezza di una scrittura lucidissima, coerente, fluida, che pure a tratti conosce (“Dal cielo arriva una nuvolaglia che intrappola l’aria. Il quartiere sembra trattenere il respiro”; “Una parte di me giace nella melma nera, è un grumo d’ira nudo e fangoso”) squarci e lampi di un lirismo che sembra quasi rivisitare l’ottocentesca écriture artiste, sia che, con rapidissime e nette pennellate, tratteggi gli elementi essenziali di uno scenario o di un paesaggio, sia che dia forma, con la stessa nettezza repentina, all’informe del sentimento, del ricordo e del tormento; istituendo, tra il mondo esterno e quello interiore, tra gli eventi e il loro senso profondo, una sottile rete di nessi e di legami, che sta al lettore attento cogliere, e protrarre nella propria coscienza interpretante.



[Matteo Veronesi]