Carlo Cassola, VIAGGIO IN CINA. Illustrazioni di Ernesto Treccani. Milano, Feltrinelli, 1956
Non è privo di
sincerità e di modestia questo resoconto di un viaggio in Cina del 1955 (a
Pechino, in Manciuria e a Shanghai, con tappe anche a Hong Kong e a Delhi),
come c’era da aspettarsi da un autore che della linearità e della chiarezza
fece elementi della sua poetica e che non pare a sufficienza inserito nel
canone dei classici fondamentali del Novecento italiano, nonostante il volume
dei Meridiani dedicato alle sue opere narrative tra il 1937 e il 1970.
L’autore, facendo
proprio un relativismo culturale salutarmente reciproco, che lo distingue da
altri resoconti di viaggio nell’Asia orientale, per lo più intenti a lamentare
l’ignoranza cinese dell’Occidente e non viceversa, dichiara:
“Confesso che credo
poco a questi scambi culturali organizzati. Nel caso degli scambi italo-cinesi,
va tenuta presente anche la reciproca ignoranza. I nostri ospiti non sapevano
quasi nulla della cultura e della letteratura del nostro paese: conoscevano a
malapena i nomi di Marco Polo e di Dante, tutt’al più avevano visto Roma città aperta e Ladri di biciclette. La nostra conoscenza della cultura e della letteratura
cinese non era molto più approfondita. Bisognava semmai cercare un terreno
comune nelle altre letterature straniere. [...] A volte li invitavamo a
esprimere le loro preferenze letterarie: i nomi più frequentemente citati erano
quelli di Tolstoj, Cecov, Gorkij, Majakovski, Sciolokov, Balzac, Zola, Victor
Hugo, Shakespeare, Dante (ma quest’ultimo nome credo venisse fatto per
complimento)” (p. 96).
A riprova del
relativismo, “la vergogna di essere un bianco ti accompagna come un’ombra”,
meno pronunciata però con i giovani, “che hanno ricevuto un’educazione
marxista, per la verità non fanno questione del colore della pelle: quando
ricordano i misfatti del colonialismo, non dicono ‘i bianchi’, ma
‘gl’imperialisti’”.
Quanto all’arte,
tuttavia, nonostante l’affermazione di aver letto in un libro di Claude Roy che
“l’immobilità dell’arte cinese è una favola” (p. 37) dovuta all’ignoranza
occidentale, Cassola alla fin fine la riconferma, ritenendo che “rappresenti la
natura o l’uomo, tenda alla rappresentazione della realtà o all’astrazione
simbolica, questa pittura è il frutto di uno stato d’animo fermo, costante,
immutabile, che consente solo le ripetizioni, le variazioni intorno a un unico
tema” (p. 37). In architettura, a parere di Cassola, “sia i templi che i
palazzi mancano di monumentalità, consistendo in una serie di costruzioni quasi
uguali sparpagliate in un vasto raggio. Lo stesso motivo architettonico e lo
stesso elemento decorativo è ripetuto fino alla sazietà e alla noia” (p. 27).
Il giudizio sulla
rivoluzione (basato su quanto si sapeva allora) è nel complesso positivo perché
“1) ha unificato la Cina; 2) l’ha resa indipendente; 3) ha posto riparo al
flagello della fame e delle inondazioni; 4) ha iniziato l’industrializzazione
razionale del paese; 5) ha compiuto una riforma agraria di cui hanno
beneficiato trecento milioni di contadini; 6) ha dato un grande impulso
all’istruzione; 7) ha grandemente migliorato le condizioni igienico-sanitarie e
annientato la corruzione” (p. 99).
Sono sempre fondamentali
i punti di contatto nella comunicazione umana tra culture diverse. Cassola li
trova nelle aspirazioni del popolo, per esempio una madre che dichiara la
propria vita migliore di prima “perché ha finalmente una casa; perché il marito
e il figlio hanno la sicurezza del lavoro; perché la figlia può studiare” (p.
51), le stesse aspirazioni che poteva avere una madre italiana degli anni
Cinquanta, si direbbe. E nella solidarietà e comunanza dei destini avversi: si
veda la visita a una miniera di carbone e agli incidenti che ricordano a
Cassola la frana nella miniera di Ribolla nel 1954 (p. 64).
[Roberto Bertoni]