15/07/14

Milena Michiko Flašar, IL SIGNOR CRAVATTA

[Passi (Kyoto 2014). Foto di A.L. Somma]


Milena Michiko Flašar, Il signor Cravatta. Traduzione di  D. Idra, Torino, Einaudi, 2014
                                               

Talvolta la fuga – prima ancora di esser un’evasione dal mondo – è una corsa accidentata per schivare se stessi. Occorre allora non lasciare tracce della propria coscienza, rifugiarsi in una routine fatta di gesti minimi e, soprattutto, vigilare. Vigilare senza sosta, inflessibilmente. Una minima distrazione, e tutto può crollare.

Come ci racconta la nippo-austriaca Milena Michiko Flašar ne Il signor Cravatta, Taguchi Hiro lo sa bene. Vent’anni che pesano come mille, e ventiquattro mesi trascorsi rinchiuso nella sua stanza, a proteggersi col silenzio e l’assenza dalla realtà che preme alle porte, per poi tentare – quasi distrattamente – di ritrovare fuori, in strada, la propria identità. Un’ombra di essa pare essersi annidata in un anonimo parco, su una panchina qualunque, dirimpetto a quella d’un uomo malinconicamente stanco, che Taguchi Hiro incontra ogni giorno. Sguardi rapidi, qualche cenno, un saluto, e poi – d’improvviso – un torrente di confessioni fra loro. Qualche volta la voce si annoda giù nella gola, il corpo freme, mentre i segreti si frangono contro i denti stretti, ma una storia non può che chiamare un’altra storia, e un’altra, e un’altra. E così via.

L’acerbo hikikomori (auto-recluso volontariamente) e il salaryman (impiegato) che sente la vecchiaia corrodergli le ossa; il ragazzo che si ostina a nascondersi – sotto una zazzera folta, dietro gli occhi bassi, in mezzo alle paure – e l’uomo che non si separa mai dalla sua cravatta – simbolo di quella normalità che lo strangola piano e, al tempo stesso, lo tiene vivo –; due animali spaventati in cerca di un luogo sicuro da cui spiare l’esistenza senza esserne spiati. Qualcuno sarebbe forse tentato di scorgere nelle loro figure – neppure troppo in filigrana – la schiacciante ansia da prestazione, le enormi pressioni connesse all’ambito lavorativo, nonché l’insopportabile mole di aspettative e responsabilità che gravano sulle spalle dei giapponesi sin dalla giovane età: ma una lettura orientata solo in tal senso finirebbe per sminuire l’opera, facendone il corollario romanzesco d’una teoria sociologica.

Con una prosa distillata, evocativa, che però non smarrisce mai la sua quotidianità, l’autrice dispiega dinanzi a noi una narrazione in cui si alternano tenerezza, dolore e rimpianto. Parola dopo parola, le solitudini costruite con meticolosità si incrinano e lasciano finalmente penetrare il sentimento più difficile: la fiducia nell’altro.