07/07/14

Giorgio Agamben, IL FUOCO E IL RACCONTO



Roma, Nottetempo, 2014

Nella prefazione alla seconda edizione di Infanzia e storia, Giorgio Agamben identifica nel concetto di linguaggio e in quello di potenza, o meglio, nel nesso esistente tra i due, il nucleo della propria speculazione filosofica:

Se per ogni autore esiste un interrogativo che definisce il motivum del suo pensiero, l’ambito che queste domande circoscrivono coincide senza residui con quello verso il quale si orienta tutto il mio lavoro. Nei libri scritti e in quelli non scritti, io non ho voluto pensare ostinata-mente che una cosa sola: che significa ‘vi è linguaggio’, che significa ‘io parlo’? […] Porre il problema del trascendentale vuol dire in ultima analisi chiedere che cosa significa ‘avere una facoltà’, qual è la grammatica del verbo ‘potere’. E la sola risposta possibile è un’esperienza del linguaggio.[1]

Del resto, secondo quest’ottica, è proprio la facoltà linguistica, il poter entrare nel ed esperire il linguaggio, ciò che rende tale il soggetto umano, introducendolo, al contempo, alla propria singolarità individuale e alla storia.

Non stupisce, pertanto, che, dopo averne più volte sondato il perimetro, Agamben abbia deciso di indagare in modo specifico e organico l’orizzonte più propriamente linguistico della vita umana, quello letterario. Quella dimensione del linguaggio ‘che ne disattiva e rende inoperose le funzioni comunicative e informative, per aprirle ad un nuovo, possibile uso […] in cui la lingua, che ha disattivato le sue funzioni utilitarie, riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire’.[2]

Come suggerisce il titolo di questa raccolta di dieci saggi, Il fuoco e il racconto, e le cui suggestioni vengono almeno parzialmente esplicitate nel primo omonimo scritto, è questa una trattazione che procede principalmente lungo le due direttrici del mistero e della narrazione.[3] Quest’ultima identifica lo stile autoriale, la selezione che ogni scrittore compie tra configurazioni ipotetiche e congetture e l’ordito che da essa ne ricava. Mistero è, invece, l’infinito bagaglio di potenzialità inespresse e mai concretizzatesi, di voci e stilemi archetipici che alimentano ogni atto di scrittura ed ogni immagine futura di leggibilità a posteriori. Incanti alchemici, matrici cabalistiche o parabole religiose, molteplici sono le declinazioni di tale fuoco originario della letteratura.

Soprattutto, si avvertono echi di Blanchot e del suo Orfeo in questo porre, da parte di Agamben, un legame inscindibile tra letteratura e mistero, dove al ‘mormorio infinito’ della lingua nel caso dell’uno,[4] si sostituisce la parola balbettante del secondo.

Una parola portatrice, però, di un’esigenza radicalmente semantica. Perché se, come sottolinea Agamben medesimo, un’esigenza altro non è che l’indicazione dell’assenza di una possibilità di qualcosa, cui è necessario ovviare, ciò che la letteratura demanda è, in primo luogo, una riformulazione delle categorie e dei parametri con cui è stata sinora definita. Una risemantizzazione dei suoi stessi presupposti, che si dipana agile in un susseguirsi vorticoso –vortice è del resto sinonimo, nell’omonimo saggio centrale, di potenza – di interrogativi icastici.

Cosa significa scrivere? Perché si scrive? In nome di che cosa? Dove finisce, se finisce davvero, un libro? Dove inizia? In quanti e quali modi si può leggere?

Porsi tali domande impone, anzitutto, una riflessione in merito al fare letterario, che Agamben affida al saggio centrale ‘Che cos’è l’atto di creazione?’. Traendo spunto dalla definizione di Deleuze per il quale quello di creazione è un ‘atto di resistenza’, Agamben la problematizza sviluppandola in direzione della propria concezione di potenza e impotenza. Pertanto, se ‘la potenza è […] un essere ambiguo, che non solo può tanto una cosa che il suo contrario, ma contiene in se stessa un’intima e irriducibile resistenza’, ne consegue che, in letteratura, ‘dobbiamo allora guardare all’atto di creazione come a un campo di forze teso tra potenza e impotenza’.[5] Infatti, leggere l’atto di creazione letteraria come, al contempo, potenza e impotenza, consente, secondo Agamben, di sottrarlo alla convinzione vulgata che esso si esaurisca in e coincida con l’opera letteraria.
Affrontare tali quesiti significa perciò ripensare, simmetricamente, tra gli altri, il concetto stesso e il fondamento ontologico dell’opera, non più concepita come attualizzazione concreta ed in sé conclusa di una volontà creatrice, bensì quale ‘creatura ibrida, […] non-luogo in cui la potenza non scompare’.[6]

Il fuoco, insomma, quale mistero della potenza letteraria che è tale nella propria impotenza, ovvero nel resistere alla logica univoca e asfissiante della produzione attualizzante.

E il racconto, quindi, non solo e non tanto momento di secolarizzazione rispetto a tale mistero, bensì, richiamando un termine caro ad Agamben, gesto di profanazione dello stesso.

[Veronica Frigeni]



[1] Giorgio Agamben, ‘Experimentum Linguae’, in Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, (Torino: Einaudi, 2001), pp. x-xii
[2]  Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto (Roma: Nottetempo, 2014), p. 59
[3] ‘Il fuoco e il racconto, il mistero e la storia sono i due elementi indispensabili della letteratura’. Ibid., p. 14
[4] Maurice Blanchot, Il passo al di là (Genova: Marietti, 1989), p. 83
[5] Agamben, Il fuoco, p. 46
[6] Ibid., p. 98