25/02/14

Valentina Calista, QUATTRO TESTI INEDITI


1.

Penetrata la luce dentro i rami
ho per caso scoperto la malinconia
nel luogo esatto dove ho conosciuto
la gioia.
Capita anche a me di leggere Wislawa
e di pensare al suo piccolo sorriso,
superbo come un generoso tramonto
dopo un pesante pensiero di vita.

Settembre ama il fruscio dei pensieri
e il calare del sole dentro una nostalgia.
Settembre, la lontananza è giunonica
come il letargo nel cuore in inverno.



2.

È per l’ubriachezza dell’assenza
che ci ricordiamo di vivere sempre.
Per quel momento dove il fiato s’arresta
e le mani si fanno pianura di ghiacciaio.

Poi, si risanano le memorie come lunghe
orazioni da fissare sul piano del marmo.
E sappiamo – finalmente – d’essere soli
nell’eterno esistere della nuda presenza.

La bellezza ci richiama, di lacrimazione
contaminata, a riordinare immagini remote.

Il muretto della casa – sopra il quale la mia mano
posava – sentiva il calor fatuo del sole di giugno,
e racchiuse in sospensione l’estate a mezzogiorno.

Un procedere d’intermittenze l’upupa ci donava.
Tuttavia, risiede quell’istante di dolcissima apatia
nei sempre celesti angoli del profondo ricordare.


3.


Provo a riprendere tra le mani  tue parole,
viali bianchi incisi di polvere e stanchezza
che ti vedono riposare con la schiena morbida
poggiata come piuma sulla tua quercia già cantata,
con le ginocchia all’aria fresca e le mani pensili
a cogliere le piccole cose da te raccolte nel novero.

Ci guardiamo da due mondi:  il linguaggio del silenzio
tesse discorsi nella presenza di noi.

Mi appari lieta e luminosa,  margherite sul tuo seno
e la mia guancia ti saluta lacrimosa, gioia luminosa.

Ci siamo incontrate a metà strada, nel sogno della casa
della mia infanzia sempre presente: era l’alba il giorno
il tramonto la notte, ciclico tempo mutevole, stagioni.

Pietra,
tu, parlavi col silenzio di me, a me, nell’attesa
che io sentissi finalmente la tua assenza, per sempre,
Presenza.
Non mi sei lontana se non per spazi, luoghi,
ma ogni parola riletta è una Pasqua di te rinnovata.


4.

Non è qui che si celebra il vacuo
della quotidiana e manesca follia.
Non qui, non ora, in questo taglio
che finalmente si lacera di luce.

Vorrei nascondermi dal male, amen,
ma non posso abbassare la testa
a terra, dove gli occhi si fanno neri
come la terra che piangono amara.

Sentire il fiato di una giornata finita
nel docile attimo della buonanotte
del sole, quando saluta la tua bocca
e tutte le palpebre si fanno chiuse.

Penelope , per un attimo le mani
intrecciano il tempo lungo la tela,
lungo gli istanti dilatati dai sospiri
così vani che i giorni sbattono le ali.