Emergere dalla lettura
di questa “anomala” e ricomposta raccolta di Canti [1], in parte già editi, è
forse il verbo che meglio esprime la mia uscita da un magma
vitalissimo che letteralmente mi ha sommerso, come raramente mi succede
leggendo poesia contemporanea. L’anomalia risiede nella volontà evidente
di costruire un unicum accostando esperienze di
pensiero e linguaggio - come mi conferma l’autore - che abbiano
l’impronta dell’accoglienza indiscriminata e per questo
fertilissima, “perchè il pensiero che muove la mia parola fonda
nello stile plurale, perché plurale è la vita”. Questo crossover di generi e
registri, come rilevato con acutezza anche da Paolo Donini in prefazione,
è superamento del cliché della compattezza di una raccolta poetica,
necessità di guardare oggi verso un più largo orizzonte cognitivo-visionario,
in un costante e dilatato incontro-scambio di poetiche.
Così questa scrittura si fa materia
cangiante, poliedrica, ribelle, civile. Capace di trasmettere, per esempio, da
un versante, lo stupore di fronte all’imprendibilità del femminile, dall’altro
la presa d’atto -amara - delle infinite macerie etiche del nostro mondo, con
tutta la ribellione e il carico di un cambiamento a partire da sé.
Nei Canti dell’Amore Coniugale,
nessuno - credo - prima di Guglielmin, ha saputo trasporre in
poesia una percezione nuova del femminile di oggi, un’essenza
di donna quieta e sapiente, e insieme una specie di folle naturalezza,
quella misteriosa mobilità che assimila il femminile a creaturalità
incontaminata, pur nello scambio di carnalità e pensiero, “animale che stagiona
e riparte e ancora plana riposa e di nuovo s’invola, mai solo”. L’autore
capta nell’essenza di donna note mai prima evidenziate in poesia
(maschile), che esprimono quella capacità del genere, di saper scomparire
facendo spazio al “volo largo della specie”, di attraversare con
naturalezza la dimensione dell’uno per fondersi in quella corale - oggi
più che mai necessaria -, quel suo offrirsi guardingo e insieme generosamente
aperto al destino. Tutto questo si trasmette lungo i tredici primi Canti e si
concentra mirabilmente nei versi in cui si dice del gesto della compagna nel
suo voler compiacere il consorte chiamandolo poeta. Riconoscendo così di
vivere, lui, la Grande Illusione della poesia con quella massima autoironia che
lo eleva e dunque lo elegge poeta.
Nei Canti Partigiani la lente
visionaria-razionale si sposta sul male di vivere, quella incomprensibile
nostra contraddizione dell’ essere sociali e insieme irreparabilmente
a-sociali, la dimensione grassa dell’Ocidente (per quanto ancora?), la
sozzura della politica dei compromessi e della corruzione, l’incapacità del
balzo etico globale, quello di vedere oltre e lontano, per il bene di
tutti. E nell’ultima strofa Guglielmin trova un finale grandioso, nel rivolgersi
con ironia anche a colui che lo sta leggendo, nel rimprovero rivoltogli
di poter essere superficiale, dunque non dissimile da colui che mette alla
berlina. Sebbene, subito dopo, in Voglio dire, l’onestà di
pensiero fa includere anche se stesso nella folla di coloro che “so che la
violenza, so che l’ingiustizia… ma non basta se poi confondo patto con
inciucio, se parlo con luoghi comuni…”.
Sì, sono stata esteticamente
attraversata pure da una lingua che mescola note gergali vivide ad
un lessico pieno, naturalmente raffinato e giusto per questo dire, da un
ritmo chiaro, a volte incalzante - personalissima cifra - che risuona in
profondità rendendo memorabile la scrittura. E, come l’autore spiega
nelle note, lungi dal creare simboli-stereotipi, egli lavora nell’addensare
metafore, che a noi appaiono incisive come colpi di scalpello sulla
statua-testo. La poesia ne emerge in profilo nitido, vero, sulla scena di
frammenti sparsi che non sono altro che il nostro quotidiano di pena e di
vuoto. E su questa frammentazione della realtà e dell’umano, appare fulminante,
nel testo Incanto, quell’incipit: “Vendo monade con vista”, che
sarebbe stato anch’esso un titolo significativo del libro, comprensivo del
sarcasmo e - diciamo pure - del divertimento del poeta, che salva lui e
insieme salva anche noi, dall’annegare nel disincanto.
“Eppure la luce tiene in quella melma”,
dice Guglielmin ritornando alla donna, figura che continuamente spiazza,
dunque ricuce speranza - senza retorica - mentre il poeta la insegue,
spiazzando anche lui chi legge, nell’offrirgli quella sua -di lei-
parola che distrae, fruga, capovolge, addita. E ancora e sempre, crea.
Una scrittura che è specchio spietato,
totale, della nostra inquietudine del vivere-pensare-comunicare, che appare
come modello di una poesia del nuovo millennio, manifesto del possibile canto
dell’oggi [2].
NOTE
[1] Prefazione di
Paolo Donini, Piateda (Sondrio), CFR, 2013.
[2] Questa
recensione, qui riprodotta su richiesta dell’autrice, è già stata pubblicata sulla rivista Poesia, 285, 2013, pp. 56-57 e online in Blanc de ta nuque (Uno sguardo sulla poesia italiana contemporanea).
[Annamaria Ferramosca]