Documentario narrativo, si suddivide in quattro episodi, ciascuno esemplare di una situazione sociale e personale. Il primo quadro mette in scena la vita di un conduttore di elefanti e il suo matrimonio; il secondo l’emigrazione dal Bengala di una famiglia povera per partecipare alla costruzione di una diga; il terzo l’esistenza quotidiana di un anziano che vive in una capanna nella giungla e si adopera per cacciare pacificamente una tigre che minaccia il villaggio; il quarto la morte di un ammaestratore di scimmie per siccità e la fuga della scimmietta a Bombay.
La rappresentazione dell’India è fedele e caratterizzata da simpatia umana
e comprensione dei problemi che ognuna delle situazioni di cui sopra genera.
Percorrono il film varie idee chiave. L’armonia tra esseri umani e natura
sembra ostacolata dal progresso che, nondimeno, conduce inevitabilmente all'emancipazione, turbando allo stesso tempo l’equilibrio ecologico. La tradizione, i
rituali, le mozioni della quotidianità sono còlti con umanità e sguardo
antropologico partecipe anche se non condiscendente o paternalista. Il
contrasto tra città e campagna si manifesta come anche altrove nel mondo, non
esclusa l’Italia degli anni del dopoguerra, eppure con le connotazioni
particolari della società indiana.
Ciascuno dei protagonisti racconta la propria storia in prima persona sullo
sfondo, mentre la cinepresa riprende ora vicende vissute, ora paesaggi, ora
animali. I dialoghi tra indiani non vengono tradotti italiano, ma lasciati
correre nelle lingue originarie in cui sono pronunciati, come se anche questo
facesse parte del rapporto di comunicazione tra Occidente e Oriente: un
rapporto in cui i soggetti della telecamera sono sia l’Altro, sia l’universale
collettivo del Noi.
È un film tecnicamente magistrale, come del resto tutto Rossellini, in cui
la curiosità per il reale è interpretata dalla mediazione della soggettività e
dell’interpretazione psicologica relativizzate dal mondo geo-esistenziale in
cui si svolgono le storie presentate.
[Roberto Bertoni]