03/04/12

Marina Pizzi, SOQQUADRI DEL PANE VIETO (2010-11, STROFE 6-14)


["The museum of everyday life..." (Les Halles, 2012). Foto Rb]


6.

un giorno finisce il tragico s’inerpica
nella palude sciatta del mio corpo.
in realtà il tempo è un forsennato addio
una credenza con le formiche e le briciole
di quando c’era la spesa di una vita.
oggi mi appoggio all’eremo del buio
alla marina sirena delle regie del sale
perché la pendola è ferma da un mare d’anni
la noia piena di salute senza resistenze.
si stenta invece verso la fenice d’alba
questo abituro che assassina il futuro
dentro le scosse di singhiozzi e ceppi.
la terra è chiusa da sicari sicuri
nessuna pietà ospita la lena
di captare oasi la merenda infante.
così clemente è l’ora di guardarti
dentro la darsena della luna piena
alambicco di cristallo il tuo respiro.
piango assai quando qualunque impegno
mi precipita nel legno della cassa
appena morta forse. se ieri volli la regia del sasso
oggi il canestro è il desiderio più lungo.


7.

nessun domani ignori se stesso
è il passato il dubbio. la quarantena
vizza del rondinino storpio
dentro il nido piissimo delle cimase
chissà qualora uno stridio benefattore.


8.

non farò caso alla malia del timbro vuoto
la possibilità di essere chiunque
lo stallo di un ergastolo
la baraonda di un amante
oggi mi basta il fischio della fionda
la dura prova di chiudere a chiave
le inferriate delle lanterne vizze.
in coda all’alamaro della rotta
perdo la spugna per asciugare il sangue
acquisto le nomee di golfi senza attracco.


9.

la luna vuota sotto il sudario d’inganno
quasi a trasalire per una stoppia in cortile
dove si evince morte ben sicura
e tagli all’avaria del disamore.
questo si ritaglia dalla gaiezza del mare olimpico
quando si staglia la penombra della giovinezza
nell’equoreo barcone di guardarti
tenue balbettio del tic di non averti.
salutò la rima in riva al mare
senza amorazzi di lutto per sopravvivere
al cielo troppo alto da toccare.
in calamità di genesi e verdetto
offro la mira di guardare oltre
almeno oltre la feritoia della rondine.
appena assaggerò il sale ammesso
sarà fatale dimorare il cerchio
verso la falla della palla sgonfia.
il simbolo del cerchio è la bravura
della clausura libera la perfezione d’aria
nonostante il ritorno del medesimo.
alla marea di scarto voglio sottendere
genialità la nuca del bambino
che se ne va in apice di nido.


10.

ho visto un bell’albore quando da piccolo
s’insinuava l’arringa della vita
una vacanza con gli alamari aperti
verso la gioia la corsa anti muraglia.
in trono la lucertola immobile
verso lo scavo di trovar pepite
nel limitar di un’agenda vergine.
oggi nella ciotola che m’imbeve amore
racconto quale fu la mia mattanza
la polvere del rantolo e l’eclisse.
scampato sono stato un bambino d’epoca
con la ciotola del riso e la mitraglia
tra eremi di fanghi e ghiri di ricchi.
calamite di mosche soqquadrano il mio corpo
ora che avvengo da bambino offeso
dentro la darsena che mi soffre madre.
qui mi dannano una marea di lacrime
nel crimine del fasto in cima ad altri
continenti cattivi di ricchezza.


11.

il museo del giorno comune
quando dal fatuo del rimedio
si pinza la foto ad asciugare
a ricordo d’eccezione
svaghi mistici il sollecito dell’abaco.
12.
gli anni passano una radice nera
una miniera di aghi
una tempia suicida.
uno straccio di rondini si rannicchia
sotto cimasa in balìa del vento.
una crudele soglia intasca il cuore
nei valori del serpente che sibila
perpetue le sentenze dell’occaso.


13.

un eremo m’infesta la salute
mordo il crisantemo che mi sceglie
con scaglie ridanciane per uccidermi
contro la festa d’asilo di bambini
felici illetterati. con il filo spinato per bracciale
ingorgo la mia vita traumatica
mentore il sangue che non mi vuole bene.
tra treccine di braci vado a lungo
lungo il fiume per salvarmi l’anima
l’acqua migliore non saprà lavarmi
dai chiodi stonati delle labbra.
la lezione del vicolo se la ride
di me da sempre intenzionata al lutto
alla frode di strapparmi il cuore.
invece di coriandoli lamento
la lira che canzona la mia pace
sotto il circuito di lavarmi il viso
con il colera degli altri che sono tragici.
sbatte la persiana sulla collina fatua
vendetta che da anni si ripete
appena giungono le rondini di pace.
sono martirio e avanzo di me stessa
la resina del miele che non sa sedurmi
nel tramestio del mitico fantasma.
la rendita del fianco è stata arresa
dallo scontro illiberale della fune
dal cipresso che mi aspetta sempre.


14.

scottature di calce questa manfrina
che gioca con i verginei sassi
a ribassare il suolo per far giocare
i bambini. in bilico sul manuale d’ascia
so imparare a fendere il palazzo
sotto le membra che scaldano i papaveri
do diluire un pugno da una carezza.
la forza del messere signore assente
comunichi col brano della preghiera
dica se può magnificare la rendita
della fortuna. con poche eclissi ci
sarà riguardo verso lo scempio
di perdere il viso.


[Le strofe precedenti di sono uscite su "Carte allineate" in data 7-3-2012]