Nelle due parti di questo scritto (la seconda sul prossimo numero di "Carte Allineate") si esprime qualche idea sulla cosiddetta “fine dell’intellettuale”, l’organicità gramsciana, il rapporto del dibattito odierno con archetipi del Novecento.
1. Fine dell’intellettuale?
In un articolo recente, Renato Ventura esamina elementi della situazione degli intellettuali [1]. Il punto iniziale è la fine della figura dell’intellettuale, tema su cui l’autore dell’articolo non è solo: si tratta infatti di una concezione ripetuta negli ultimi anni.
Pur sentendosi dalla stessa parte di Ventura e trovandosi in accordo con varie idee espresse nel suo saggio, si discorda dalla fine degli intellettuali perchè colpisce semmai il fatto che, mentre la figura dell’intellettuale si modifica col cambiamento sociale, soprattutto a contatto con la società di massa, resiste invece il tipo di intellettuale che si sforza di dare voce alla differenziazione dalle ideologie dominanti.
Quindi, nel notare come queste stesse ideologie abbiano interesse a produrre un intellettuale ligio al potere e sottoposto ai mass media, e nella consapevolezza che il compromesso e la subalternità svolgono ruoli importanti, con variazioni a seconda delle epoche e delle soggettività protagoniste del campo culturale, occorre nondimeno riscontrare la resistenza a tali strategie, tenendo presente tra l’altro il fatto che gli intellettuali come gruppo sociale presentano contraddizioni.
Se si tiene conto delle analisi di Pierre Bourdieu, un distanziamento dal potere è anzi proprio del ceto intellettuale quando venga messo a confronto con richieste troppo unilaterali e pressanti. Secondo Bourdieu, l’intellettuale ha necessità di un livello elevato di autonomia; e coloro che si dedicano a questa professione tendono a esprimere distacco dalle logiche più sfrenate del potere politico ed economico, con maggior evidenza nei poeti e meno naturalmente in chi lavora in territori più connessi coi temi dell’attualità [2].
Muovendo, sulla scorta di questa considerazione, dai più evidenti episodi di asservimento massmediatico (poniamo chi nell’era berlusconiana ha scritto articoli ideologici per il quotidiano “Il Giornale”; o si è trovato a lavorare nella conduzione di spettacoli televisivi condizionati da aspettative di sostegno al governo, visto che in casi eclatanti chi era in posizione critica veniva licenziato), e dalle posizioni indipendenti senza prese di parola, per trasferirsi sul terreno dell’opposizione, si pensi all’attività di riviste di buona qualità culturale e acute ideologicamente: si vedano, tra quelle letterarie, “Allegoria”, “L’Immaginazione”, “La Libellula”, o, tra quelle più generalmente di politica e scienze umane, “Micromega” e “Alfabeta 2”. Ci si trova qui nel campo dell’impegno propriamente detto, che negli ultimi decenni ha rivendicato l’appartenenza a un campo ideologico democratico pur senza necessariamente schierarsi a fianco di un partito, dopo la crisi dei grands récits (per ricollegarsi a Jean-Francois Lyotard) [3]. In breve, la resistenza e il non conformismo ci sono stati e perdurano.
2. L’organico gramsciano
Un secondo punto è il concetto di organicità, derivato da Antonio Gramsci, uno degli archetipi novecenteschi della definizione degli intellettuali [4]. Più precisamente, partendo da interventi di Luperini del 2004 e del 2006, Ventura riscontra che “rielaborando l’idea di Gramsci sull’intellettuale organico, oggi sembra di assistere alla nascita di un intellettuale inorganico, nato dalla melma dell’informazione manipolata e dall’assenza di impegno e responsabilità” [5].
Sebbene sia chiaro quanto vada inteso col termine “inorganico”, andrebbe precisato che tale atteggiamento è in realtà, stando a Gramsci, il contrario, cioè “organico”. Negli scritti del dirigente comunista, infatti, i gruppi sociali producono i propri intellettuali “organici” dal terreno della produzione economica e affidano loro il compito di compattare e trasmettere le ideologie. Questi intellettuali esercitano le proprie attività coscientemente, a differenza degli intellettuali definiti “tradizionali”, i quali si ritengono autonomi e credono nella cultura come separata dalle strutture economiche, pur essendo anch’essi inconsapevolmente tramiti di trasmissione delle ideologie (nel periodo in cui Gramsci scriveva, per esempio, i valori dell’accettazione della situazione sociale com’essa era, la condanna della lotta di classe e così via).
Applicando a tempi recenti, se la classe dominante produce l’ideologia del disimpegno, della distorsione dei fatti e della festa carnevalesca o volgare, come è successo nell’immagine proiettata dai mass media, ciò gramscianamente non sarebbe un caso, bensì una funzione della perpetuazione del dominio. Gli intellettuali che si siano prestati al gioco si potrebbero designare in questo contesto di interpretazione come organici a destra. In tale caso, utilizzando un altro concetto gramsciano, si potrà parlare di egemonia. Se Berlusconi lamentava a fini propagandistici che l’egemonia sul terreno culturale era stata della sinistra per un periodo del Novecento, prendendo questa dichiarazione come fatto oggettivo si potrà dire che su certi campi ciò è stato vero; ma anche che fin dagli anni Novanta la destra ha rilegittimato origini e perpetuità di un proprio progetto di egemonizzazione culturale, rilanciandole nell’arena del dibattito e ottenendo consensi (un solo esempio il revisionismo delle interpretazioni del fascismo o la reinterpretazione di Mussolini come statista anziché dittatore).
C’è da domandarsi, tuttavia, se, al di fuori del settore dei media e degli apparati di stato, funzionali al potere, siano stati davvero tanti tra i letterati coloro che hanno sostenuto la reinvenzione della cultura di destra o la banalizzazione di tematiche e l’omologazione degli stili in funzione delle forme massificate di circolazione dei prodotti dell’immaginario. L’impressione è che, nell’àmbito delle neoideologie degli anni 1994/2011, molti intellettuali umanisti italiani se ne siano distanziati. Pensando agli autori di prosa, se è vero che alcuni fenomeni commercializzati hanno preso campo e c’è stata una riduzione dell’impatto sperimentale sui linguaggi, si sono però affermati o hanno continuato a produrre scrittori di buon valore letterario e non compiacenti nei confronti del potere, per esempio Abate, De Marchi, Fois, Mari, Mazzucco, Moresco, Rea, Scurati, Vassalli, Veronesi.
NOTE
Intervento per “Italian studies in Ireland. One-day research colloquium”, Cork, 3-2-2012).
[1] . “R. Ventura, GLI INTELLETTUALI NELL’ITALIA BERLUSCONIANA. APOCALITTICI O INTEGRATI?, “La Libellula”, 3, 2011, pp. 48-56.
[2] P. Bourdieu, THE FIELD OF CULTURAL PRODUCTION: ESSAYS ON ART AND LITERATURE, Cambridge, Polity, 1993, pp. 29-73.
[3] J.-F. Lyotard, LA CONDITION POSTMODERNE, Parigi, Éditions de Minuit, 1979.
[4] A. Gramsci, SELECTIONS FROM THE PRISON NOTEBOOKS OF ANTONIO GRAMSCI, London, Lawrence and Wishart, 1971.
[5] R. Ventura, GLI INTELLETTUALI..., cit., p. 49.
[Roberto Bertoni]