13/11/11

Kim Song-dong, MANDALA (MANTRA)


[Bongeunsa: Temple guardian (Seoul 2011). Foto di Marzia Poerio]


Kim Song-dong, MANDALA (MANTRA). Ed. originale coreana, 1978. Traduzione francese di I Kyoung-hae e Jean Golfin, Arles, Éditions Philippe Picquier, 1992

Spiace avere notato con tanto ritardo questo interessante romanzo, il cui autore, nato nel 1947 e noto nel paese natale, ha compiuto il percorso monacale son (zen coreano) ed è stato restituito in seguito alla vita da laico come uno dei due protagonisti di MANTRA (così nel titolo originale; non persuade, francamente, la spiegazione della traduzione in francese con MANDALA in quanto, spiega la prefazione, "plus musical à notre sense et qui garde mieux ce que les Anglais appelleraient la 'flaveur' coréenne"; né risulta persuasiva la decisione di togliere il testo buddhista che completava l'edizione originale in quanto esso "relève d'un autre genre", p. 6. Quell'appendice stava semmai probabilmente a indicare quanto il romanzo fosse un'inchiesta sulle difficoltà del monachesimo, ma non una requisitoria contro la religione).

La storia è piuttosto lineare. Il personaggio che dice io, Bubwon, è un monaco itinerante, fedele ai principi, ma che non ha ancora realizzato il risveglio e ha dei dubbi sulla vocazione. In uno dei monasteri in cui trascorre periodi più e meno lunghi conosce Jisan, "un de ces moines dépravés, donnés à l'alcool, qu'on appelle taengcho", p. 7. Nonostante l'avversione inziale del narratore per l'altro, c'è una curiosità che lo spinge ad ascoltarlo e a condividere le peregrinazioni invernali in paesaggi agresti e urbani innevati e freddi, almeno per una parte del libro, quella in cui Jisan muore, devastato dall'alcolismo e dopo aver messo in evidenza altri voti infanti, tra quali quelli dell'astinenza dal sesso e dal fumo.

Questo monaco loquace, nel corso della narrazione, parla della propria dissipazione delle promesse religiose, ma pare allo stesso tempo, nel comportamento umano, non avere tradito alcuni ideali essenziali, soprattutto l'autenticità e la fedeltà a se stesso. Il messaggio di Jisan perviene infine alla coscienza di Bubwon, il quale, dopo il decessso dell'amico, decide di passare al mondo secolare.

Se le difficoltà delle astinenze e la rigidità delle regole sono evidenziati, allo stesso tempo essi non vengono messi di per sé in questione, anzi se ne rileva la validità accanto a quella dell'utopia di liberare e purificare se stessi e dopo quel consegumìimento portare la logica della liberazione dalle passioni al resto del mondo. Questa utopia, in Bubwon, si scontra con la percezione della ripetitività e dello svuotamento che egli percepisce nel messaggio buddhista com'esso è ripetuto dalle prescrizioni del maestro e dall'atteggiamento pedissequo di alcuni monaci. In breve, la dogmatica sconfigge con l'interpretazione personale degli insegnamenti; questi, a loro volta, entrano in contrasto con l'apprezzamento della vita e del mondo esterno, in cui Bubwon alla fine si getta, persuaso di avere non solo acquisito, ma anche perso qualcosa. Nondimeno, viene afferrata, come valore positivo, la normalità di contro all'eccezionalità della vita monastica. Le ultime parole del libro, infatti, sono: "Et de tout mon ȇtre, je courus me mȇler à la foule" (p. 235).

[Aurelio Devanagari]