Torino, Einaudi, 2010
Il primo capitolo si intitola con una domanda retorica: “Vale la pena salvare l’Italia?” Un paese che presenta, da un lato, nonostante il calo recente, livelli di politicizzazione tra i più alti in Europa, ma ha “uno scarso senso della nazione” e delle istituzioni (p. 16); è tuttora caratterizzato, soprattutto dopo i fallimenti del 1992-93, come li definisce Ginsborg, da alti livelli di corruzione ed è “uno dei più diseguali tra i paesi capitalisti avanzati” (p. 19).
In positivo, e come aspetti da incrementare, Ginsborg vede la “tradizione di autogoverno urbano”, la “vocazione europea”, la “ricerca dell’eguaglianza” e la “mitezza come virtù sociale” (p. 46): quattro fattori che appartengono alla storia italiana e sono stati non poco dissipati negli ultimi decenni, pertanto dovrebbero rinascere e rifondarsi per portare l’Italia verso un progetto di modernità autentica.
I limiti più evidenti del paese sono invece: una “Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole” (p. 86); l’“ubiquità del clientelismo” (p. 95); la “ricorrenza delle dittature” (p. 102) (paragrafo in cui, come già in un suo libro precedente, Ginsborg stila paralleli tra i metodi di ricerca del consenso mussoliniani e berlusconiani); la “povertà delle sinistre” (p. 108), ovvero la difficoltà a dare una risposta efficace alle problematiche di cui sopra.
La proposta pratica di Ginsborg è quella di un’attivazione dei ceti medi urbani, dato che costituiscono il 60% della popolazione, nei loro strati socialmente utili in modo da assumere un sempre più consapevole ruolo di trasformazione.
[Roberto Bertoni]