05/11/10

Paolo Aita, SULLA PERPLESSITÀ


[The eye of the observed. (From the parks of Brussels). Foto di Marzia Poerio]


Paolo Aita, SULLA PERPLESSITÀ. Roma, Volume edizioni, 2009

Il libro di Paolo Aita SULLA PERPLESSITÀ, se è il luogo dove passato e contemporaneo sono messi a confronto attraverso esempi specifici, in una continua spola tra le diverse arti (Paolo, infatti, si accampa fra di esse in quanto studioso di letteratura, filosofia, arti e musica), è soprattutto il luogo in cui si mostra che la strada del loro dialogo è interrotta, che “la percezione dell’uguaglianza di passato e futuro quando manca un prospettiva positiva” diviene angosciosa, essendo di fatto il passato “irraggiungibile, perché inconoscibile e incomprensibile”.

L’analisi di Paolo Aita sulle modalità in cui si è attuata la revisione dell’agire estetico si snoda attraverso l’abolizione della storia, fino a giungere all’abolizione dell’oggetto, attuata dai movimenti avanguardistici di fine Novecento che hanno abolito il confine linguistico tra ciò che è arte e ciò che non lo è e la distanza tra i procedimenti e le pratiche. Aita effettua un distinguo tra l’attività istantanea che dà origine all’opera, e in cui si abolisce il concetto di progettazione dell’opera, e quella che necessita di una durata, nella quale si mina il concetto di realizzazione manuale, denunciando che, in generale, si assiste a uno sconfessamento dell’idealità e all’incoronazione di un nuovo re: la tecnica vista come procedimento e processo. Ma segnala che si verifica anche un’altra gravissima perdita: lo smarrimento del canone e della bellezza.

D’altronde, perdere il passato, la capacità di usarlo in vista del futuro, è perdere il futuro. Paolo Aita rende evidente uno scenario in cui siamo senza-storia e senza-tempo. Se, dunque, “oggi a mancare è la percezione stessa della cultura come problema e come lingua comune” è perché manca una nuova visione del tempo: unica dimensione che può legare il passato al futuro, incuneandolo in un solco comune. Ma Aita non si fa portavoce del solo riconoscimento del problema, egli individua e tira le fila delle grandi idee culturali che hanno consentito la formalizzazione di opere d’arte di valore universale e con grande generosità prende sulle spalle la responsabilità di indicare una via d’uscita. Il tempo diviene così strumento e collettore di ipotesi di lavoro future, acquistando un ruolo centrale nell’analisi.

Pur non perdendo occasione di sbarazzarsi di tanti luoghi comuni che ostruiscono la strada di una nuova visione (dall’ipertrofia dell’insignificante all’utilizzo del corpo nella body-art), Aita enuclea i concetti costruttivi della sua edificazione: tempo come processo, tempo valutato non in sé ma solo in quanto registrato attraverso i suoi eventi. Tempo in cui il prelievo non deve essere indifferente e immotivato, poiché è ineludibile che il prelievo porti a una revisione del senso, a un giudizio - nonostante proprio la carenza di giudizio, l’imperturbabilità estetica, l’oltraggio, la perdita dei criteri di giudizio siano le tare della contemporaneità. E, naturalmente, le critiche di Aita sono, insieme alla proposte da lui effettuate, i mattoni che costruiscono la sua visione che è genericamente riassumibile anche “nell’uso critico e creativo del passato, senza sudditanza nei confronti degli autori da tramandare”. Il suo viaggio nella cultura prosegue individuando le opere in cui a suo avviso sono condensate le idee che possono essere recuperate per una propulsiva rielaborazione contemporanea che voglia raggiungere, attraverso un ritrovato senso il dialogo con il fruitore, dove ci sia ascolto e accoglienza dell’altro e in cui contenuto ed espressione non vengano più forzosamente e innaturalmente separati.

In ogni caso, che il viaggio e l’analisi siano problematiche – da qui il titolo sulla perplessità tra la scelta delle diverse soluzioni a disposizione non avendo più a disposizione un soggetto privilegiato d’identità, ma molteplici, allo stesso modo in cui un’opera è sempre diversamente interpretabile – non vuol dire che sia impossibile effettuare una scelta, avere una richiesta e una necessità. Interrogare le opere allora sarà proprio il metodo attraverso il quale esse potranno venire comprese, “colte in uno sguardo e fatte vivere”. E, dunque, quello che si è configurato all’inizio come un dialogo fra passato e futuro viene, durante il prosieguo della lettura, sostituito dal dialogo fra un oggetto e un soggetto, dal desiderio della loro coincidenza. “L’arte è solo nella bellezza di chi guarda: occorre creare bellezza in noi per intendere l’arte”. È questo il nuovo senso che dobbiamo chiedere all’arte.

Naturalmente questo discorso, complesso e labirintico, poiché innervato dall’esemplificazione prelevata da pressoché tutti gli ambiti delle opere culturali, il quale rende il libro mossissimo e inevitabilmente frammentato, merita una lettura paziente e appassionata essendo svolto non con un discorso lineare e cronologicamente disteso, ma sincronico, dove le opere sono fatte precipitare in un crogiuolo in cui il corto-circuito temporale non azzera il loro valore emblematico: di soluzioni ravvisate e maturate nel relativo contesto storico e di cui Aita ci mostra un esemplare modalità di lettura critica.

[Rosa Pierno]