Spinea (Venezia), Edizioni del Leone, 1991
Che il silenzio renda nudi è metafora terribile a cui Francesco Marotta consegna valore più che metaforico, simbolico, nel suo non recente, ma non per questo archiviabile libro IL VERBO DEI SILENZI. Titolo quanto mai esplicativo della disamina che vi si conduce e della lotta che vi si ingaggia. Silente sta per nudo. Se non si può articolare, posizionare, confrontare, sviluppare con il linguaggio, si sta di fronte al mondo nudi, inermi. Ma silenzio può anche essere utile strumento per analizzare il funzionamento del linguaggio, in una sorta di esperimento. Infatti, persino la semplice fonazione, articolazione più prossima all’afasia totale che alla parola, può essere considerata appiglio, inizio, possibilità. L’articolazione in fonemi pare, inoltre, trovare analogia nella frammentazione del reale, nella parcellizzazione dei fenomeni, in quella frantumazione con cui la realtà si manifesta e che solo noi riconduciamo, o almeno ci proviamo, a unità. “Riflessi come in un occhio / sbarrato” a cui corrisponde “Un verbo che impone la memoria / stretto dentro il pugno.” A rimarcare che l’interpretazione e la classificazione non dipendono solo dalla volizione, ma sono attività necessarie: non se ne può fare a meno. Potremmo forse qui essere autorizzati a pensare che è proprio questo che caratterizza l’attività del poeta.
Il lavoro irrinunciabile del poeta porta in evidenza un fiotto di cose fratturate e scollegate, di faglie e scoscendimenti. Marotta impone per un istante il silenzio a se stesso solo per liberarsi dalle griglie già precostituite che il linguaggio porta con sé: elementi spuri, rovine, orpelli, per fare respirare la realtà, percependola prima di fissarla attraverso la lingua: “La notte non frappone / più mura / tra ombra e sole. / Cancellata la lingua / che con voci di creta / tende reti di nomi”. Tuttavia, se Francesco restituisce “geometrie di ore”, “trame di luce”, “margini sottratti”- in questa desiderata sospensione linguistica – ciò equivale già a una confessione: non solo dalla lingua non si esce, ma egli stesso produce una lingua che letteralmente crea la realtà. Siamo qui nel poderoso alveo della grande tradizione che usa la poesia come indagine sui mezzi conoscitivi, importante quanto poco frequentato. Ci si avventura su queste perigliose acque solo dopo aver maturato un’esperienza forgiata attraverso una lunga confidenza con gli strumenti filosofici. Ma non è certo questa, di Marotta, una poesia che fa la parafrasi di una o più teorie filosofiche. Uno dei mezzi più sicuri per rendersene conto è l’assoluta mancanza di termini tecnici e di sponde o sassetti che servano a rendere riconoscibile la propria appartenenza/aderenza a un precipua teoria filosofica. Anzi, la quasi totalità delle parole presenti si riferiscono a oggetti appartenenti al piano dell’immanenza: dimora, pietre, acqua, luce, lampo, terra, maree, specchio, luce, fuoco, venti. Solo si può dire che la sensazione che si ricava dalla lettura è quella di avere a che fare con oggetti presenti nel pensiero, i quali per questa sola ragione sembrano astratti.
È una poesia il cui pensiero sfrigola come acqua in una padella di olio bollente e pur tramando la realtà si sottrae per fare spazio a una ricomposizione in cui le parole tessano relazioni non logiche, imprevedibili. “Silenzio / - alfabeto dolente del pensiero.” Francesco s’immerge nel fluire della natura: altro tema possente con cui questa silloge si confronta. “Ognuno modella la selce / dei suoi giorni. / A immagine di alfabeti senza labbra / le schegge / che franano il respiro”. Il silenzio utilizzato anche per dare voce alla natura, per farla risuonare ed echeggiare nell’interiorità. Ma una natura in cui il poeta inventa “cieli nell’argilla”, in cui rileva che la pietra ha “carne e voce”, oppure in cui ci sono “Radici che emergono dal lampo / che rischiara i solchi / lungo gli anni”, è una natura esistente solo nel linguaggio. E infatti: “dormono acque assenti / di una lingua che nessun nome / accoglie”. Se qualcosa non è nominabile è assente. Resta solo l’operazione inversa come una prova del nove: “Rigonfia di ogni voce / che senza parole / ascolta”.
La poesia non manca, attraverso i suoi specifici modi, di essere al tempo stesso anche una dimostrazione: “Parole. Dimorano la notte / delle mie labbra. Ne esploro / i sentieri. Le reti.” La natura come lingua, è colei che ascolta ciò che il poeta dice. Non è la quadratura del cerchio, quantunque l’obiettivo fosse un’azione impossibile da compiersi ed estenuante da porsi. E’ un risultato ottenuto come distillazione, è ciò che si è percorso districandosi tra intrecci apparentemente insolubili. E’ ciò che la poesia ottiene di distinguere. E’ il verbo che emana dal silenzio: la nitida, insopprimibile voce che scaturisce dalla poesia.
[Rosa Pierno]