15/11/09

Bijan Zarmandili, LA GRANDE CASA DI MONIRRIEH

Milano, Feltrinelli, 2004

LA GRANDE CASA DI MONIRRIEH è il romanzo di esordio di Bijan Zarmandili, uno dei primi scrittori iraniani italofoni entrato a far parte della letteratura della migrazione in Italia. Un aspetto singolare di questa letteratura è proprio il grande numero di culture rappresentate dagli scrittori e narrate nelle loro opere: accanto a scrittori provenienti dal Medio oriente ce ne sono numerosi dall’Africa settentrionale e subsahariana, dall’Asia e dal SudAmerica, nonché dall’Europa Orientale. La presenza di scrittori di provenienza diversa è una conseguenza dei flussi migratori verso l’Italia a partire dagli anni Settanta, che hanno cambiato l’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Dagli anni Novanta, accanto a testimonianze di viaggio e di esperienze di contatto con l’Italia, si sono sviluppate narrazioni differenziate come tematiche e generi. Il termine stesso, “letteratura della migrazione”, esprime la poetica di chi vive tra più culture, e raggruppa scrittori che condividono l’italiano con i lettori, ma non l’origine culturale e linguistica che è altrove. Va inoltre sottolineato che a differenza della Francia e dell’Inghilterra, in Italia la letteratura della migrazione non è collegata ad un passato coloniale, anzi, il postcoloniale italiano si è formato dopo, nel senso che l’Italia e il rapporto con essa vengono nominati da scrittori provenienti dal Corno d’Africa.

Zarmandili, originario di Teheran, dove è nato nel 1941, fa parte della migrazione più antica verso l’Italia, che risale agli anni Sessanta, quando gli intellettuali e anche molti giovani lasciavano l’Iran per evitare le repressioni. In Italia, Zarmandili è noto e apprezzato per la sua attività di giornalista ed esperto di politica orientale, soprattutto per il gruppo editoriale “Espresso” / “la Repubblica”. Nei romanzi L’ESTATE È CRUDELE (Milano, Feltrinelli, 2007) e IL CUORE DEL NEMICO (Roma, Cooper & Castelvecchi, 2009), la politica e l’individuo si intrecciano in modo più attivo rispetto a LA GRANDE CASA DI MONIRRIEH, dove la storia moderna del paese passa attraverso la storia di Zahra, la protagonista. Zahra è una ragazza disinibita, istruita e aperta alla cultura occidentale. Il titolo designa quella che sarà la sua casa nella prima fase della sua vita coniugale. L’uomo che decide di sposare mostra di apprezzare la sua apertura e di condividerla, ma il matrimonio non le porterà gioia. Il marito è sempre assente e la tradisce sistematicamente; la famiglia estesa di lui, con cui vivono, la evita per non essere arrivata vergine al matrimonio, e la isola a causa di faide familiari. Sola, e confinata al ruolo di madre di tre figli, Zahra reagisce ai tradimenti tradendo a sua volta. Dalla breve relazione con un giovane inquilino della grande casa, nascerà una bambina che abbandona neonata. Allontanata dalla famiglia, Zahra non regge al peso del rimorso e si dà fuoco, ma verrà salvata e, perdonata dal marito, potrà tornare in famiglia.

In generale, lo stile narrativo è caratterizzato da frasi brevi e snelle che invogliano il lettore a soffermarsi sulla narrazione. La ricerca di influenze della cultura d’origine dell’autore nel testo non si può cercare nell’italiano, preciso e pulito, ma nello stile che si avvale della poesia o della prosa poetica per sottolineare l’importanza di emozioni e pensieri dei personaggi. Questo stile, conosciuto come madama, appare di frequente nei testi di scrittori mediorientali, COME LA STRANIERA e LA CITTÀ DI IRAM di Yaunis Tawfik, o IL SOLE D’INVERNO di Muin Madik Masri.

Inoltre, l’autore ha scelto di lasciare un numero considerevole di parole in farsi. Alcune, come “halal” and “chador”, fanno oramai parte di un vocabolario corrente; altre invece, sono parole che esprimono concetti importanti, sia religiosi, come “namz-e-meyyett” (la preghiera per i defunti), che morali, come “halalam kon” (purificarsi), o “bihaia” (spudorata), che mantengono una forza interiore se lasciati nella lingua originale, mentre si diluirebbero in traduzioni e spiegazioni.

Ognuno dei sei capitoli in cui è suddiviso il romanzo prende spunto da un dettaglio; il primo capitolo per esempio, LA FINESTRA SUL MONTE ALBOZ, si riferisce alla vista dalla finestra dell’ospedale dove sta morendo Zahra.

La descrizione della sua morte coincide con la sua rinascita simbolica attraverso un processo di ricostruzione della sua vita da parte della figlia maggiore. Ai ricordi e alle ricerche personali si aggiungono le confidenze fattele dalla madre, un mosaico di eventi ed emozioni che non segue una rigida linearità temporale, ma si muove tra il passato della madre e il presente della sua morte, con squarci anche nel passato e presente della figlia stessa. Il tentato suicidio di Zahra ritorna spesso nella narrazione, diventando un fil rouge, il simbolo del “prima e dopo” nella sua vita. Alla conoscenza frutto di ricordi si accompagna una ricchezza di particolari fornita dalla presenza di un narratore omniscente e dal ricorso al discorso diretto.

La centralità della figura di Zahra è indubbia, tanto che i membri della famiglia sono presentati come emanazioni di Zahra, senza un nome proprio che dia loro maggiore autonomia: la figlia maggiore di Zahra, il figlio di Zahra, il marito di Zahra, la madre di Zahra, riportando costantemente l’attenzione sulla ricerca dell’identità di Zahra che, in parte, diventa anche per la figlia un viaggio nella propria identità.

Il tema della soggettività femminile ha un ruolo molto importante in questo romanzo. Attraverso la madre di Zahra, Zahra stessa, la figlia maggior e altri personaggi femminili minori, vengono delineate tre generazioni. Il destino della donna iraniana è nella sua sessualità; osservando Zahra, sempre troppo vicina agli uomini, la madre la descrive “bihaia”, spudorata, lontana da “negiabat”, dalla purezza, che invece dovrebbe rappresentare. La storia sociale è scritta sul corpo delle donne: celarlo o mostrarlo diventa espressione di tendenze sociali e di ideologie politiche. Zahra per esempio, con i capelli corti e il trucco in una foto giovanile del 1936, si rimette gli abiti tradizionali quando va a vivere nella casa conservatrice del marito, e passerà gli ultimi quaranta’anni ricoperta dal burka per celare il corpo devastato dal fuoco.

Allo stesso tempo che un viaggio nell’identità personale e femminile, il romanzo è un viaggio storico nell’Iran, anch’esso alla ricerca di un’identità. Questo comporta un cambiamento di tono nella narrazione, che da lenta ed emotiva quando si narra la vita interiore e gli episodi personali, si fa più cronachistica e maschile quando viene narrata la storia del paese, tanto che sembra scritta dalla coscienza giornalistica di Zarmandili. Le varie tappe nella vita di Zahra sono inseparabili dagli eventi storici; la sua vita, e in parte quella dei suoi familiari, diventa simbolica dell’Iran. Zahra è una bambina quando sale al trono Reza Khan, che cercherà di modernizzare il paese. Ecco che Zahra, nel 1936, non porta il velo e lavora per i francesi. Attraverso la figlia si rivivono le repressioni degli anni Cinquanta ad opera di Mohamad Reza Pahlavi, tanto che l’uccisione di uno studente liceale ha un’eco nelle recenti repressioni da parte di Mahmoud Ahmadinejad. E poi l’abdicazione di Reza Khan, proprio il giorno in cui il marito va a fare visita al corpo bruciacchiato di Zahra, e così via fino alla sua morte, nel 1986, con il paese invaso dalle truppe di Saddam Hussein, tanto che, secondo la figlia, la madre è morta di spavento per le bombe. La storia e quindi fatti documentati e la storia di Zahra, vera perché di una donna conosciuta dallo scrittore, pongono il romanzo in una tensione tra finzione e realtà.

Sono, quello individuale e quello storico-sociale, processi molto complessi, caratterizzati da evoluzioni e involuzioni, dalla presenza non sempre conciliabile di tradizione e innovazioni. Questo spiega perché in effetti il titolo del romanzo non sia semplicemente “storia di Zahra”, mentre la “casa” rappresenta in piccola scala le complesse dinamiche tra l’individuo e la società. Sulla scia della vita della protagonista, il romanzo diventa un’occasione per ripercorrere la storia del Novecento iraniano; Reza Khan, lo Scià, Mossadegh, Khomeini, l’invasione da parte dell’Iraq e anche la cultura della borghesia iraniana di quei tempi vengono riproposti da Zarmandili al lettore italiano con un punto di vista che egli stesso definisce ibrido, frutto delle radici e della distanza, ma senz’altro un punto più interno rispetto a quello di un occidentale.

Comunque, non basta la forte presenza della storia per dire che “Monirrieh” è un romanzo politico. Certamente, rivolgendosi a un lettore europeo, invita a riflettere sull’ingerenza dell’occidente nell’evoluzione dell’Iran, ma non vi si leggono giudizi.
D’altro canto, il romanzo mostra l’occidente come un rifugio e una speranza a chi vuole libertà, come dimostra la scelta della figlia maggiore e del figlio di Zahra e, fuori dal testo, Zarmandili stesso.

L’Iran è presentato come un paese complesso dove influenze dall’estero entrano ed escono, non solo politicamente, ma anche attraverso la poesia, la letteratura e il cinema. Il lettore è invitato a chiedersi il significato di queste interculturalità, di queste finestre aperte sul mondo e del loro ruolo nel testo, soprattutto perché è proprio il cinema italiano che viene nominato, con riferimenti a Gina Lollobrigida e Silvana Mangano, mentre il marito di Zahra è responsabile di una sala cinematografica e importa film italiani. Sarà proprio il cinema ad influenzare il marito, attratto da un modello diverso di donna che in parte ha trovato in Zahra, o Rosy, come la chiama lui per la sua pelle chiara, e cambiandole il nome le cambia anche identità occidentalizzandola. La tensione interna tra modernità e tradizione lo farà vivere in uno spazio ibrido che arrecherà dolore ad entrambi.

Dall’altro lato, Zahra è stata molto influenzata dalla letteratura, tanto che lei stessa ritornerà più volte sul racconto breve VORTICE di Sadegh Hedayat, scrittore iraniano morto suicida a Parigi nel 1941, per la forte identificazione col tragico personaggio femminile; viene anche molto ispirata dalla poetessa Parvin Etesami, ribelle alle ingiustizie. In questo modo Zarmandili offre al lettore italiano l’opportunità di conoscere meglio l’Iran e la sua cultura e apre altri canali di comunicazione attraverso la lettura, canali che spesso la politica cerca di bloccare. L’Iran ha conosciuto questa repressione con la fatwa lanciata dall’Ayatollah Khomeini contro i VERSI SATANICI di Salman Rushdie nel 1989, e proprio nel 2006 la censura della repubblica islamica ha messo al bando tutte le opere di Hedayat. Nello stesso anno, Feltrinelli ha pubblicato una nuova edizione delle opere di Hedayat (LA CIVETTA CIECA. TRE GOCCE DI SANGUE) con una prefazione di Zarmandili, che sembra così voler sottolineare l’importanza del leggere. Scrivere, e leggere, diventano atti di pacifica resistenza alle repressioni culturali, come ci ricorda bene anche Azar Nafisi in READING LOLITA IN TEHERAN (Londra, Harper, 2007).

In conclusione, questo primo romanzo di Zarmandili è un importante lavoro interculturale, perché consente al lettore di superare e comprendere le differenze culturali identificandosi nella vita emotiva dei personaggi. Allo stesso tempo offre una conoscenza storica dell’Iran da parte di chi la conosce bene dall’interno, permettendo di comprendere meglio la storia recente del paese.


[Marta Niccolai]