23/03/09

Nino Arrigo, L’ESTETICA DEL MITO: DAL MODERNISMO AL POSTMODERNO


[Constant Montald, LA FONTAINE DE L'INSPIRATION (Royal Museum of Fine Arts, Brussels). Foto di Marzia Poerio]


Nel 1923, recensendo l’ULYSSES di Joyce, in un articolo intitolato ULYSSES, ORDER, MYTH, Eliot sosteneva che “il metodo mitico è semplicemente un modo di controllare, ordinare e dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e di anarchia che è la storia contemporanea” [1].

L’intento di trascendere la Storia e il conseguente bisogno di ordine e perfezione, da affermare sul caos del presente, erano già stati espressi dal poeta ne LA TERRA DESOLATA:

“[...] benché sia una dimostrazione del caos, LA TERRA DESOLATA tratta in realtà del bisogno d’ordine. Esso utilizza il paradigma della fertilità come struttura di una visione trascendente [...] l’ordine estetico delle parole raggiunto dal poema intende ergersi come richiamo al potere della Parola onnicomprensiva" [2].

La posizione di Eliot sembrerebbe scadere nel dogmatismo. Lo stesso autore non cercherà affatto di nascondere questo atteggiamento, dichiarandosi piuttosto: “classico in letteratura, monarchico in politica, e anglo-cattolico in religione” [3].

Nella visione austera di Eliot, dunque, il mito diventerebbe mera forma, la Parola che contiene (e controlla) tutte le parole, il “significante” da cui scaturiscono tutti i possibili “significati”. Ma, coincidendo con la tradizione codificata, tra le cui braccia cercherebbe e troverebbe riparo, il mito annullerebbe la ricerca e l’immaginazione, esorcizzando, attraverso il ricorso al dogma, la “conoscenza della metamorfosi” [4]. L’estetica eliotiana sembra pertanto ignorare “la dialettica tra l’immaginazione e la realtà” [5], appellandosi “alla tradizione classica o almeno a una sua versione austera, piuttosto che romantica” [6]. Laddove, infatti, il Romanticismo accoglieva “la protesta dell’individuo”, il “modernismo” [7] - di cui lo scrittore inglese è uno degli illustri rappresentanti - predica invece la “spersonalizzazione”.

Ma avere una tradizione, come sostiene Cesare Pavese, “è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla” [8].

Ora, se possiamo cogliere una diversa concezione del mito nel passaggio dal “modernismo” al “postmoderno”, potrebbe essere la seguente: laddove nel modernismo il mito si interessa delle “radici” - e nessun altro esempio potrebbe essere più calzante, in proposito, della poetica eliotiana - nel postmoderno si interessa degli “itinerari” [9].

A questo punto occorre, però, una precisazione. Non è nostra intenzione aderire ad una visione lineare ed evolutiva della storia. Siamo pertanto consapevoli, usando le etichette di “modernismo” e “postmoderno”, di incappare in delle riduzioni, che tuttavia, allo scopo di chiarire ed esemplificare al meglio i nostri concetti, non potranno che risultarci utili. A tal proposito, non possiamo che condividere in pieno le seguenti dichiarazioni di Remo Ceserani:

“Ogni proposta di periodizzazione storica è un fatto interpretativo nostro [...] le etichette che noi usiamo, come per esempio quella di modernità e postmodernità, hanno un’esistenza solo nella nostra mente, sono utili strumenti per capire e mettere ordine fra le nostre ricostruzioni e tuttavia non hanno una loro esistenza sostanziale e necessaria nelle cose e nella realtà: sono interpretazioni più o meno convincenti, ma anche inevitabili semplificazioni di situazioni molto complesse. E le realtà complesse, per loro intrinseca natura, hanno la proprietà di contenere elementi fra loro contraddittori, tendenze contrastanti, novità e persistenze, forze innovative e conservatrici. Le realtà storiche non obbediscono a leggi deterministiche che uniformano a sé ogni singolo aspetto della vita materiale, di quella delle coscienze, di quella dell’immaginazione” [10].

Ma, dopo questa (utile) digressione, non ci resta che ritornare al nostro tentativo di definire (ri-definire) il mito.

Una visione del mito inteso come ricerca, possibilità permanente, quale sembra profilarsi nel postmoderno, potrebbe appartenere anche a Cesare Pavese. Per lo scrittore piemontese il mito è “un’interiore immagine estatica, embrionale, gravida di sviluppi possibili, che è all’origine di qualunque creazione poetica” [11], ma “la poesia è altra cosa. In essa si sa d’inventare, ciò che non accade nel concepire mitico [...] La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti” [12]. E ancora:

“Un mito è sempre simbolico; per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere in molteplici fioriture. Esso è un evento unico, assoluto; un concentrato di potenza vitale da altre sfere che non la nostra quotidiana, e come tale versa un’aura di miracolo in tutto ciò che lo presuppone e gli somiglia” [13].

Quello che risulta interessante in questo passo, oltre la corrispondenza tra mito e simbolo contrapposti all’allegoria, è che il mito, pur essendo un “evento unico, assoluto”, è capace di “molteplici fioriture”. Dunque la sua dimensione non sembra certo quella della stasi e della fissità dogmatica eliotiana. Il mito, nello scrittore langarolo, non coinciderebbe, dunque, con la tradizione (“avere una tradizione è meno che nulla”), bensì con la ricerca (“è soltanto cercandola che si può viverla”).

La visione estetica dello scrittore piemontese sembrerebbe dunque avvicinarsi a quella eliotiana: entrambi approdano alla tradizione classica, anche Pavese è un classicista, “rustico”, se vogliamo sposare l’etichetta di Elio Gioanola [14], ma pur sempre classicista. Ma laddove Eliot si preoccupa essenzialmente delle “radici”, Pavese si preoccupa degli “itinerari”.

Nella visione dello scrittore piemontese mistificazione e demistificazione, mito e logos sarebbero complementari e compresenti nella mitopoiesi. Il logos è la voce del mito, la sua “lingua” (allegoria) e il mito è la facoltà di parlare (la “Parola omnicoprensiva” di Eliot), il “Linguaggio” (simbolo).

Potremmo accostare questa dialettica a quella saussuriana tra langue e parole, significante e significato.

A questa punto, dunque, non sarebbe più azzardato definire “utopistica” la visione pavesiana del mito, e “conservatrice” quella eliotiana.

Entrambe affonderebbero le loro radici nel Romanticismo e da esso si divaricherebbero ma, laddove la prima sembra proiettata verso la postmodernità, più propensa a considerare il mito in una dimensione laica, secolare e ironica, la seconda (quella eliotiana) è piuttosto ancorata a quella visione tragica, austera e trascendentalista tipica del “modernismo”.

La visione per così dire “utopistica” del mito, sembra essere condivisa da Paul Ricoeur. Anche per il filosofo, infatti, il mito apparterrebbe alla dimensione della possibilità. Al suo interno sarebbe attiva la dialettica tra “ideologia” (logos-modernità) e “utopia” (mito-postmodernità), ma laddove l’ideologia “ha la funzione di preservare, di conservare”, l’utopia è invece “sempre uno squarcio su un luogo inesistente” [15], la forza riformatrice. L’ideologia coinciderebbe dunque con la “tradizione”, la società organizzata sulla cultura e sul codice, il logos che da voce alla forza fantastica del mito. L’utopia con la forza perturbatrice del mito, che riattiva la tradizione impedendo che si irrigidisca, si sclerotizzi, diventi dogma.

UMORISMO VS IRONIA

Alla visione “tragica” di Eliot, Lawrence Coupe oppone, piuttosto, una “visione comica” del mito, riscontrabile già nell’ULYSSES joiciano (recensito, per l’appunto, da Eliot) ma, ancor più chiaramente, nell’ultimo romanzo del grande scrittore, FINNEGANS WAKE (1939): “A differenza della visione di Eliot, quella di Joyce è democraticamente indecorosa e buffa [...] FINNEGANS WAKE è una 'gaia pantomima' [...] Esso è fortemente ciclico, totalmente comico, e 'disgrega' il discorso abituale” [16].

Ma se “l’ironia è ancora atteggiamento interno a una contrapposizione di tipo dialettico-storico” [17], iscrivibile nell’orizzonte della metafisica e quindi, proprio in tal senso, categoria della “modernità” (fatta salva la nozione di “ironia romantica”, che sembrerebbe racchiudere tutta la carica paradossale e disgregatrice dell’umorismo), a risultare più utile per esplicitare la “visione comica” del mito potrebbe essere, qui, la categoria (postmoderna) di umorismo. L’umorismo, che grazie all’azione del paradosso “appare come destituzione della profondità, disposizione degli eventi alla superficie, dispiegamento del linguaggio lungo tale limite” [18], sarebbe, pertanto, un’arte “della superficie, contro la vecchia ironia, arte della profondità o delle altezze” [19]. L’umorismo ha un senso perchè ne ha due, il suo potere paradossale riesce, infatti, a trasformare la tragedia in commedia, insomma - come aveva ben visto il genio di Pirandello - è “un’erma bifronte, che da un lato piange e dall’altro ride” [20]. Secondo Deleuze “il paradosso è il rovesciamento simultaneo del buon senso e del senso comune” [21]. Laddove “i caratteri sistematici del buon senso sono dunque l’affermazione di una sola direzione; la determinazione di tale direzione come procedente dal più differenziato al meno differenziato, dal singolare al regolare, dal notevole all’ordinario; l’orientamento secondo tale determinazione della lancetta del tempo, dal passato al futuro” - il paradosso, invece, “come passione scopre che non si possono separare le due direzioni, che non si può instaurare un senso unico” [22]. In virtù della sua viscosità, dunque, la sua logica è la logica del mito, di quella “conoscenza della metamorfosi” che, sin dalla Grecia classica, si fa beffa del principio d’identità e non contraddizione. E la logica della metamorfosi è la logica del senso, “perchè è proprio del senso non avere direzione, non avere ‘buon senso’, ma sempre le due direzioni e i due sensi a un tempo” [23]. La finalità del mito sarebbe, dunque, quella di attuare una “riduzione della coscienza” [24], riportando alla luce quella verità inconscia del “senso”, preclusa dalla “barra” della rimozione. All’azione profonda delle “radici”, alle rigide gerarchie della “tradizione” (nell’accezione di Eliot), la forza paradossale, disgregatrice e umoristica del mito oppone l’azione superficiale della rete, quella che Deleuze e Guattari chiamano rizoma. “Il rizoma è fatto in modo che ogni strada può connettersi con ogni altra. Non ha centro, non ha periferia, non ha uscita, perchè è potenzialmente infinito” [25], è lo spazio della possibilità, degli itinerari. Lo spazio del mito.

Una visione, questa, che il “pensiero sistemico” estende oggi a tutti i sistemi viventi. Fritjof Capra ci ricorda che, “poichè a ogni livello i sistemi viventi sono reti, dobbiamo visualizzare la trama della vita come sistemi viventi (reti) che interagiscono in una struttura a rete con altri sistemi (reti) [...] In altre parole, la trama della vita è fatta di reti all’interno di reti. A ogni scala di ingrandimento, in osservazioni più ravvicinate, i nodi della rete si rivelano come reti più piccole [...] In natura non c’è alcun 'sopra' o 'sotto', e non esistono gerarchie. Ci sono solo reti dentro altre reti” [26].

Il mito - ci ricorda Morin - “è metamorfico come l’evoluzione biologica, il che significa che quest’ultima somiglia terribilmente al mito” [27]. E, dato il ruolo fondamentale che l’evoluzione gioca nella vita, potremmo affermare, dunque, che il mito è metamorfico come la vita [28].


NOTE

[1] Cfr. T.S. Eliot, ULYSSES, ORDER AND MYTH, “The Dial”, LXXV, 1923, pp. 480-83, in R. Ceserani, IL MATERIALE E L’IMMAGINARIO, Torino, Loescher, 1989, pp. 741-44.
[2] L. Coupe, IL MITO. TEORIA E STORIA, Roma, Donzelli, 1997, pp. 18-19. Ma la TERRA DESOLATA è un’opera profondamente ambigua e ambivalente, un’“opera aperta”, a tal punto da consentire (anche al di là delle intenzioni del suo autore) una lettura opposta a quella di Coupe.
[3] Cfr. T.S. Eliot, OPERE 1904-1939, trad. it., Milano, Bompiani, 1992, p. XXVIII.
[4] Cfr. R. Calasso, IL TERRORE DELLE FAVOLE, in I QUARANTANOVE GRADINI, Milano, Adelphi,1991.
[5] L. Coupe, cit., p. 24.
[6] Ibidem.
[7] Come nota puntualmente Ceserani: “la difficoltà a usare un termine come ‘modernismo’ e a preferire semmai ‘modernità’ o ‘il moderno’ deriva dal fatto che ‘modernismo’ ha avuto una sua ampia diffusione nella chiesa cattolica, applicato al movimento riformatore di fine Ottocento e primo Novecento promosso da Maurice Blondel, Alfred Loysi, George Tyrrel ed Ernesto Bonaiuti e sfociato nella condanna di Pio X con l’enciclica PASCENDI del 1907. Fra i più pronti a superare ogni remora e a introdurre anche in italiano il termine ‘modernismo’ sono stati gli anglisti” (R. Ceserani, RACCONTARE IL POSTMODERNO, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 17).
[8] C. Pavese, IL BALENIERE LETTERATO, in SAGGI LETTERARI, Torino, Einaudi, 1968, p. 84.
[9] Cfr. L. Coupe, cit., p. 60.
[10] R. Ceserani, RACCONTARE IL POSTMODERNO, cit., p. 104.
[11] Cfr. C. Pavese, IL MITO, in SAGGI LETTERARI, cit., p. 315.
[12] C. Pavese, DEL MITO, DEL SIMBOLO E D’ALTRO, in SAGGI LETTERARI, cit., p. 274.
[13] Ibidem, p. 273.
[14] Cfr. E. Gioanola, CESARE PAVESE. LA REALTÀ, L’ALTROVE, IL SILENZIO, Milano, Jaca Book, 2003.
[15] Cfr. P. Ricoeur, CONFERENZE SU IDEOLOGIA E UTOPIA (1986), trad. it., Milano, Jaca Book, 1994 (citato da L. Coupe, p. 70).
[16] L. Coupe, cit., pp. 27-28.
[17] POSTMODERNO E LETTERATURA. PERCORSI E VISIONI DELLA CRITICA IN AMERICA, a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Milano, Bompiani 1984, p. 31.
[18] G. Deleuze, LOGICA DEL SENSO (1969), trad. it., Milano, Feltrinelli, 2005, p. 16.
[19] Ibidem.
[20] L. Pirandello, L’UMORISMO (1908), Roma, Newton Compton, 1993.
[21] G. Deleuze, cit., p. 75.
[22] Ibidem, p. 74.
[23] Ibidem.
[24] Cfr. P. Ricoeur, IL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI, Milano, Jaca Book, 1977.
[25] U. Eco, POSTILLE A IL NOME DELLA ROSA, “Alfabeta”, 49, 1983, poi in appendice a IL NOME DELLA ROSA, Milano, Bompiani, 1987, p. 525.
[26] F. Capra, LA RETE DELLA VITA (1996), trad. it., Milano, Rizzoli, 2001, pp. 44-45.
[27] E. Morin, IL METODO 3. LA CONOSCENZA DELLA CONOSCENZA (1986), trad. it., Milano, Cortina, 2007, p. 189.
[28] Nonostante l’opinione dei sempre più numerosi “neo-oscurantisti” contemporanei che negano l’evoluzione, proprio in nome di una conoscenza che riabiliti il mito. Ricordiamo, inoltre, che un recente progetto di riforma della scuola italiana ha financo proposto l’eliminazione della teoria dell’evoluzione dai programmi scolastici.