Nella grigia stagione che pesa (anche) sul cinema nostrano, con la solita eccezione encomiabile di pochi film, sta fiorendo un vasto repechage di quel (nostro) cinema troppo frettolosamente accantonato col timbro “di genere”.
Non so se si tratti d’un crepuscolo dell’estetica crociana o dell’influenza subita dal più moderno pragmatismo d’oltre oceano (e francese): ma è un fatto che quel cinema riaggalla in DVD, gadgets, seminari italiani e stranieri: cioè nuovo interesse. Ed era l’ora. Come l’uscita recente d’un libro culto, sulla vasta e meritoria attività di un regista come Tonino Valerii, dal complesso titolo IL MIO NOME È NESSUNO. LO SPAGHETTI WESTERN SECONDO TONINO VALERII, a cura di Roberto Curti (Roma, Un mondo a parte, 2008).
L’importanza dell’iniziativa di Curti, è già palese nell’incipit, nell’oculata prefazione di Carlo Lizzani: “Per un libro di cinema è una bella occasione avere al centro un personaggio così caleidoscopico, versatile e di alta professionalità come Tonino Valerii. Un regista che si è mosso con disinvoltura in Italia e all’estero, coinvolgendo attori di grande popolarità come Terence Hill, Bud Spencer, Franco Nero, mostri sacri del cinema italiano come Salvo Randone, figure mitiche del cinema classico come Henry Fonda, Toshiro Mifune, James Coburn, Fernando Rey…”
È dunque un iter quarantennale che Curti analizza partendo da Montorio al Vomàno, in provincia di Teramo, la terra natale di Valerii, sbarcando poi al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove il maestro e mentore Alessandro Blasetti lo vaticina come sicuro regista.
Giudizio confermato più tardi da Sergio Leone, che lo vuole suo aiuto regista, ruolo che Tonino amplia in una collaborazione pertinente alla sua cultura e visione artistica. Tanto è vero che nel ’73 Leone si fa produttore di “Il mio nome è Nessuno” con la regia di Valerii, appunto, e l’interpretazione dei due mitici (per dirla con Lizzani) Henry Fonda e Terence Hill, più una pleiade d’altri noti attori, con la musica d’un’altra icona come Ennio Morricone.
E questo quando Tonino aveva nel carniere ben sette film e una valanga di sceneggiature, che qui lo spazio non mi permette di citare.
Però IL MIO NOME È NESSUNO è diventato un “caso” mediatico, non solo per il successo (ancora oggi la televisione lo ricicla di frequente), ma per aver creato, proprio per questo, una querelle fra i due amici Sergio e Tonino, che non è il caso di ricordare, ma da intuire.
Eppure, come ben nota Curti, tranne il film citato, lo stile di Valerii non è quello dell’epopea della Frontiera, il mito del progresso o la necessità di “stampare la leggenda”: al centro dell’attenzione c’è l’uomo, non l’icona leoniana dello “straniero senza nome”.
E infatti, dice lo stesso Curti, i personaggi del cinema valeriano sono soprattutto esseri tormentati, dubbiosi nelle loro scelte, segnati (aggiungo) dall’angoscia.
Personaggi, si direbbe, ispirati dalla tragedia greca o eventi storici di peculiari drammi esistenziali, ovviamente ambientati nella forma voluta dal racconto e dalle tendenze produttive, che spesso indirizzano le tendenze.
Del resto è nella stessa cultura letteraria di Valerii lo sguardo al classico (tematico e stile narrativo), a suggerire (giustamente) a Curti, l’accostamento tra certi film e la loro connotazione ispiratrice: fra questi “Il prezzo del potere” ( sullo sfondo dell’assassinio di J. F. Kennedy), “Una ragione per vivere ed una per morire” ispirato dai racconti della guerra civile di Ambrose Bierce, e soprattutto “I giorni dell’ira” per il quale Curti scomoda (giustamente) la suggestione freudiana del mito di Edipo, un film di grande risonanza (tanto che gli Americani avevano chiesto il permesso di utilizzare il tema per una loro produzione), che racconta di un giovane ingenuo (Giuliano Gemma) vissuto nell’indigenza solitaria, che, incontrando un vecchio pistolero artrosico (Lee Van Cleef), s’ aggrappa a lui, come fosse il padre che non ha mai conosciuto. Ma questo lo modella a sua immagine perché lo sostituisca nelle sue vendette: col risultato che il giovane, presa coscienza, lo uccide per acquistare la propria libertà. Come si vede, un tema classico.
Com’è classico lo stile di “ripresa” di Valerii, che sa “nascondere la macchina da ripresa” (come dice Curti) in favore d’uno sguardo acuto sulle urgenze esistenziali dell’uomo. Tema peculiare di un regista nato (come predetto da Alessandro Blasetti) per fare il regista. E da umanista. Che malgrado la sua schiva aparthaid è rimasto nel cinema non solo italiano.
[Roberto Natale]