13/11/08

Santiago Montobbio, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS


[Pattern. Foto di Marzia Poerio]

Santiago Montobbio, EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS. Barcelona, Biblioteca Íntima (March Editor), 2005.

L’inquietante titolo di questa quinta e ultima raccolta del poeta catalano Santiago Montobbio (nato a Barcellona nel 1966) si spiega in parte nel componimento omonimo che si trova nell’ultima delle cinque sezioni del libro: “Io sono l’anarchico dei bengala / l’anarchico totale, quello che rimane e passa [...] Lavoro a tutte le ore, / specie quando la gente afferma / che non faccio nulla. So lavarmi l’anima / su un pezzo di carta e nulla, collocare bombe a orologeria / nelle città che sento alle mie spalle, / cercare e poi dimenticare il solletico di un amore / che prefiguro con distanza e attraverso tutto questo / continuare a rimanere dappertutto quando invece / me ne sono andato. / Perché io sono / l’anarchico dei bengala. Ogni volta / che ne accendo uno il tuo cuore / e il mio cuore si spengono” (p. 127).

La vocazione “anarchica” dell’autore affiora senz’altro nel rifiuto di qualsiasi definizione assoluta, tanto che la parola chiave del libro sembra essere “quasi”, che dà il titolo al primo componimento di una delle varie serie chiamate “poemas decapitados”. Quasi è l’esperienza di ogni vissuto, la conoscenza e l’emozione che se ne ricava; quasi è la vita stessa, che non riesce mai a essere “completa” o “assoluta”; quindi quasi è anche lo stato successivo, e cioè la morte di cui quasi sappiamo che quasi la possiamo intuire o provare: “se qui – ormai lo vedete – soltanto siamo / quasi tanto morti quanto l’alba”. Si capisce allora perché “poemas decapitados”, poesie decapitate, senza capo, senza ragione o coscienza. La poetica di Montobbio è legata filosoficamente al nichilismo e letterariamente alla “disperanza” di Mutis-Maqroll e al pessimismo fondamentale di Juan Carlos Onetti. In effetti, quest’ultimo aveva detto di un precedente libro di Montobbio, HOSPITAL DE INOCENTES, del 1989: “è molto bello e in un certo modo misterioso sento che coincide con il mio stato d’animo quando scrivo”. Il fallimento quindi attende, inevitabile, alla fine di ogni impresa, anche quella della scrittura, “l’oscura traversata” (p.15). Eppure, seguendo la prospettiva mutisiana, Montobbio concepisce la “disperanza”, ossia la dismissione di ogni speranza, come una forma di lucidità che alla fine dona insieme disincanto e serenità: “Non abbiamo altro, nient’altro ci rimane”.

In questo desolante panorama, dove spesso si arriva all’autolesionismo (“l’unico modo in cui mi sopporto / è quando mi ferisco”, p. 48) e perfino alla disintegrazione dell’io (“Parlo in plurale per fare finta di non essere solo, / o forse in questa notte io sono ormai tutti”, p. 45), dove Dio non c’è, o l’abbiamo scordato, o è dentro di noi, come tale o come una forza della natura, ma ormai non lo sappiamo (“Io dormivo e avevo dimenticato / di essere stato un dio, un fiume e / forse un sole”, p. 85), un valore rimane comunque in alto, forse due se – come faceva Octavio Paz – li consideriamo la stessa cosa: la poesia e l’amore. La letteratura per Montobbio è “la forma di sentire il polso delle varie miserie” (p. 35). Per questo per la poesia vale la pena “dare la vita” (p.19), anche se quelle proprie non valgono un soldo (ibid.). E l’amore “è una carta o uno specchio”, dove l’io si riflette, sicuramente attraverso quegli “afonici versi” possibili, attraverso i quali ognuno può capirsi e finalmente accettare la dura eppure rassicurante verità della nostra insignificanza: “io mi capisco e so / che non siamo nulla” (p.40).

L’amore e la donna, più volte evocata in questa raccolta, portano nel panorama della generale di speranza della poetica che le dà origine l’unica timida e spesso struggente luce:

“Perché io lo so che tu ti trovi in fondo
e nasci in mezzo al fuoco,
e ti sollevi senza rumore dagli antichi pozzi
come figura bianca di ridente terra
che dovrà ricordarmi
i suoni ormai estranei
dei soli giovani.
Io so che tu sei qui, sotto l’amore e il fiume,
e che quello che giace sono soltanto io
e che siamo piccoli, più poveri ogni giorno,
più poveri, o con più freddo”.

(Da: NE PIÙ NE MENO TRISTE DI CHIUNQUE ALTRA, pp. 99-100)

La poesia di Santiago Montobbio deriva direttamente dai grandi maestri spagnoli e ispanoamericani della generazione ormai al tramonto: Onetti, Mutis, Sabato, e continua la loro voce ruvida e disincantata capace di aprire nuove strade all’espressione e alla redenzione mediante la parola. EL ANARQUISTA DE LAS BENGALAS rivela una voce che sa scuotere e commuovere, che sa rinnovarsi e creare a partire da radici salde, riconosciute e rigenerate.


[Martha L. Canfield]