RICORDI DI ALZHEIMER (Ferrara, Book, 2007) è uno di quei luoghi poetici dove il disegno che unisce i singoli testi raccolti e l’amore paziente per la parola trovano una sintesi di lucente verità. Nelle tre sezioni (FÚDBAL, KAFKA, NOT) del libro di Alberto Bertoni ogni testo è segnato dall’indicazione di numero e mese a scandirne un ritmo di scrittura memoriale, se non proprio la sequenza esplicita di annales familiari, di un romanzo stagionale in versi. La figura del padre, qui vero protagonista e tributario della parola poetica, è coagulo del racconto, anabasi corporea dove il flusso del vivere svela tutta la sua fragilità nelle perdite della memoria, fino al punto massimo di non ritorno, all’impossibilità stessa di accertare la propria definitiva identità. Attraverso lampi diegetici, Bertoni restituisce alla pagina il resoconto di una “imprevista” conoscenza, di una storia comune – paterna e di sé – che svela al lettore i timori e le epifanie, il vissuto e le tenerezze che nel tempo l’hanno costituita; inscenando, del padre, anche la progressiva difficoltà del ricordare che si annida nei vuoti delle sinapsi e che è – sintomaticamente – la devastante prima manifestazione di una malattia come l’Alzheimer.
Passando per libri precedenti quali TATI (1999), IL CATALOGO È QUESTO (2000), LE COSE DOPO (2003), HO VISTO PERDERE VARENNE (2006), che innervano con i molti testi rivisitati e gli inediti la fisionomia di questo Ricordi di Alzheimer, Bertoni dimostra come per lui fare poesia si traduca eticamente in una scrittura ancorata profondamente all’esperienza vissuta, e che di questa esperienza riporta - con Bachtin - i caratteri di pluridiscorsività e plurilinguismo che le sono propri. Non a caso uno dei titoli considerati possibili da Bertoni per quel libro d’esordio che è LETTERE STAGIONALI (1996) era stato proprio ROMANZO; mentre ora l’intreccio di interlocutori, di luoghi, di idiomi diversi che da sempre caratterizza la sua poesia sembra assestarsi, riconoscere una sua propria cifra nella definitiva elezione del dialetto di provenienza a lingua poetica. Il dialetto modenese, che in LINGUE SALVATE (un testo di HO VISTO PERDERE VARENNE) è riconosciuto come “lingua d’amore”, diventa in RICORDI DI ALZHEIMER rappresentazione dell’altro, resoconto della parola paterna immessa nel procedere del racconto e perimetrata sulla pagina dalla finissima perizia metrica con cui Bertoni determina la struttura delle poesie.
Giovanni Giudici, scrivendo la prefazione a LETTERE STAGIONALI, mise fin da subito in evidenza di cosa questo racconto si sostanzi, quali sono i temi o le “occasioni” da cui prendono spunto i testi di Bertoni e che da lì in poi, per tutte le raccolte, hanno segnato il catalogo, i topoi della sua poesia: la materia “amorosa” innanzitutto, vissuta quasi sempre come scacco, abbandono, o impossibilità di riconoscimento definitivo, le amicizie, la passione per le corse ippiche, il vino, il buon cibo; insomma tutto un catalogo di “sentimenti” registrato con una scrupolosità che potremmo dire diaristica. La parola di Alberto Bertoni, però, tutta carnale, fisica, materica (come hanno rilevato critici amici del poeta quali Niva Lorenzini e Andrea Battistini), non è mai meramente cronistica. Il discorso poetico non si adagia sui fatti senza uno scarto che provenga dai sensi e restituisca una percezione straniata della realtà, calibrando così una disposizione conoscitiva sempre tesa ad un altrove, a un di più o un di meno di reale che ne sfugge.
Già a partire dai titoli che suddividono in tre distinti capitoli i suoi RICORDI DI ALZHEIMER, Bertoni dà ragione di altrettante aree semantiche, di scatti e accensioni linguistiche in cui vita e letteratura, passioni e morte, rivelazione e assenza, insomma “tutta l’insettitudine del mondo” (da: NOTIZIA) trova la sua trasmutazione più aderente e più alta. Diario di sentimenti, dunque, romanzo del padre e del figlio che procede per brevi scorci di vita quotidiana, per episodi minimi tesi a ricostruire una sorta di saga familiare e privatissima a cui non sfugge un altro dato di tutta la poesia di Alberto Bertoni: la passione proustiana per i noms de pays; l’epifania culturale oltre che esperenziale che il nome di un luogo porta con sé e che in RICORDI DI ALZHEIMER si concentra nel toponimo di Modena.
Luogo natale di cui nelle LETTERE STAGIONALI si contemplava la trasfigurazione metafisica (con quel nominarne la sola “M*” iniziale, omaggio dichiarato al modo che Antonio Delfini aveva di indicare la città di Modena specificandola così come entità esistenziale), tra le pagine dei Ricordi Modena torna ad essere luogo reale e corporeo, storia e appartenenza concrete. In questo modo vengono dunque a saldarsi al suo etimo il sentimento dell’Heimat (la patria del cuore che Bertoni con Delfini condivide) e le solide fattezze topografiche di una città quale Modena è stata per Gilberto, il padre protagonista di RICORDI DI ALZHEIMER: uno spazio urbano di casa e lavoro, luogo di tutta una vita, città di passioni e educazione sportiva trasmesse nel figlio come lascito continuamente emergente (“[…] mi attardo /anche oggi a guardare / le borse blu in corame / con la doppia striscia gialla / il canarino, la scritta / F.C. MODENA 1912 / e dentro le divise, i tacchetti/da campi pesanti / portieri corpaccioni o centravanti / di scarsa elevazione ma forti / gesti da panzer, altro che i nostri /rischi di fraseggi troppo alti…”; VIII, MAGGIO).
D'altronde, nella personale recherche di Bertoni, il paesaggio è spesso protagonista, avvolge gli umori e le parole con risultati quasi di metamorfosi, di contatto fisico con i chiaroscuri e le tempere, con gli elementi naturali e architettonici. Tanto che si potrebbe tentare una ricognizione in termini pittorici della sua scrittura, tutta giocata sui colori forti cari al movimento dei fauves (e a Matisse in particolare), con effetti di straniamento sul racconto che si situano appunto tra materica concretezza e tensione metafisica (“Chiaro e scuro / ma tu ascolta la luce / chiamarti per nome / accenderti favole farfalle / quel rosso di tuono / – aspettami ancora un minuto / […] / siamo qui, io e te / bello e brutto di oggi / pietre lisce del muro”; II, MARZO).
Quello del cronotopo spaziale è dunque un codice euristico, un metodo di avvicinamento alla realtà che Bertoni non disgiunge dall’altro fattore determinante della sua poesia, quello temporale, sempre presente soprattutto nella fattispecie di tempo meteorologico. Così, come il testo che fa da prologo in LETTERE STAGIONALI prendeva inizio da una constatazione climatica per chiudersi sul tempo e sul senso dei destini individuali (à la manière dei BREVI LUCIGNOLi con cui Giovanni Giudici apre il suo libro del ’93, QUANTO SPERA DI CAMPARE GIOVANNI), altrettanto “climatico” è l’incipit con cui si dà inizio ai RICORDI DI ALZHEIMER (“Lo sai, papà, si sta/tranquillamente in giacca e maglia / nonostante febbraio”; I, FEBBRAIO). Il cronotopo del tempo è tutto giocato nelle connessioni che la memoria, anche quella involontaria, è capace di creare. Ma si tratta pure della capacità, tutta di responsabilità individuale, di partire da eventi quotidiani o ricordi sportivi biograficamente precisi, per poi trovare il varco che li trasponga in una dimensione più alta, che dai toni ironici di una biografia faccia passare a una visionarietà capace di conoscere l’altro, capace di socialità, e dunque di porsi come responsabilità veramente etica (“Babbo, cosa mi sucede / se sto con il catívo / oggi e fin che vivo?”; IX, MAGGIO).
Non a caso tra i poeti amati e studiati da Bertoni ci sono Sereni, Saba, tutto il Montale da SATURA in poi, e quel Caproni postumo capace di condensare in un libro come RES AMISSA tutto il nulla del reale (tra l’altro, nelle molte citazioni di cui si è sempre nutrita e si tesse tutta la sua poesia, Bertoni in uno dei suoi testi precedenti parlava della realtà proprio come “res amissa”). C’è insomma in questa poesia, per un autore rigorosamente laico quale Alberto Bertoni è e si professa, nel rifiuto di ogni fede ideologicamente e teologicamente imposta, una dimensione della preghiera come disposizione laica all’interrogazione, al colloquio, che si declina anche nel “mantra” dei nomi (almeno dichiaratamente a partire da un libro come Tatì, con la specificazione di Anna, nome ebraico perfetto) o nel richiamo ai nomi come primigenio atto linguistico creativo di identità culturale (“Torno ai dettagli, allora/ai nomi delle strade / cuore d’improvviso a tiro / nella giacca da poco, che mi piace // Luce tremante/giù dalle grondaie / rari ebrei, alba d’allarme / quell’unica famiglia / da sfamare”; XI, GIUGNO).
E se nei libri che hanno preceduto RICORDI DI ALZHEIMER la preghiera di Bertoni riconosceva l’angelo di aura montaliana nella sua routine domestica, là dove spesso il solo contatto possibile era quello aspettato invano al telefono, quello che progressivamente viene a mancare a partire da libri come LE COSE DOPO e HO VISTO PERDERE VARENNE (con l’ultima sua sezione RICORDI DI ALZHEIMER) fino a giungere proprio a RICORDI DI ALZHEIMER è un appiglio che salvi dalla frana degli eventi (“Minerale mi resta l’olfatto / ma io non ci metto più piede, nel reale / perché bevono sangue le ombre / prima di parlare”; XIV, GENNAIO). Nessun angelo è ora possibile se non quello della benjaminiana parola di macerie, che nella perdita della memoria individuale riconosce una più alta e allegorica perdita. D'altronde, la terza parte di LE COSE DOPO portava in epigrafe la dicitura di uno dei più innovativi poeti tedeschi della nostra contemporaneità, Durs Grünbein, che recita: “angelo malato, lo sai, quel che accade è storia - dopo. Lasciale conficcate la tua scomunica, la tua maledizione”. Di conseguenza, se nei testi di LE COSE DOPO la dimensione etica e civile che Bertoni riconosceva al presente storico era incapace di condannare un orrore passato della storia come l’Olocausto (di primaria importanza per Bertoni che in sede critica vi ha dedicato lo splendido saggio di apertura di PARTITURE CRITICHE: AUSCHWITZ: SILENZIO COME VERBO), da lì in poi e per tutto un libro come HO VISTO PERDERE VARENNE, Bertoni intrecciava lo stesso motivo storico dell’Olocausto con quello privato della malattia del padre, l’Alzheimer, sovrapponendo così il resoconto di una dolorosissima perdita personale all’allegoria di una più ampia perdita collettiva di memoria e d’identità.
Appare allora forse lecito nei RICORDI DI ALZHEIMER intravedere tra i bassorilievi dei monumenti, tra le luci e il lutto della Modena di Bertoni anche qualche riverbero della Ferrara di Bassani (“Il mondo era pieno di pericoli / e di ombre – tartarughe / negli orti marini / e a Modena tritoni”; V, MAGGIO). A Modena, dunque, storia di un mondo passato e privata vicenda familiare si intrecciano e trasmutano proprio a partire da quel cortocircuito della memoria che la malattia dell’Alzheimer innesca, umiliando col suo oblio identità pubblica e dignità privata. Non a caso, credo, una delle parole più ricorrenti messe in bocca al padre nel DIARIO DI ALZHEIMER, poi in parte confluito nei RICORDI è la parola “sassi”, che nel corrispettivo tedesco “stein” è tra le parole emblema più significanti di Paul Celan, un poeta davvero capitale del Novecento e del “silenzio come Verbo”.
E si giunge nel cuore dei RICORDI DI ALZHEIMER, dove la figura del padre si scioglie come eucaristia (“Gli occhi gli sono / cambiati, gli occhi / sciolti d’amore, acquosi”; XIV, SETTEMBRE), corpo fatto cibo che si dà alla natura (“E gli uccellini, babbo? Non vuoi / che ti becchino la guancia / – tortorelle passerotti colombine/possibile che non li sfami /un pochino anche oggi /della stessa tua carne?”; XVI, SETTEMBRE). Si tratta dello stesso luogo del libro dove anche il corpo del figlio assume sembianze spossessate d’identità per approdare (in questo processo di disumanizzazione che è della malattia, ma anche di chi vi assiste) alla corazza acerba di scarafaggio: epilogo di una delle poesie più belle del libro, posta in apertura della sezione centrale e significativamente intitolata KAFKA. La parallela trasmutazione del padre in cibo per gli insetti e del figlio nel kafkiano insetto “nero, schiacciato, la corazza acerba al posto delle ali” (I, LUGLIO), diventa così - nel movimento di una metamorfosi - l’ultima possibilità di vero incontro tra i due, il “buco vivo” dove il “purissimo bianco memoriale” che è il padre può ancora affermare la sua adorazione per il figlio “come l’amore più grande non si sogna” (VIII, LUGLIO); riscattando così, contro la perdita di senso, la dignità di un’esistenza.
Il “movimento di un addio” (I, FEBBRAIO) che Bertoni indica in apertura di RICORDI DI ALZHEIMER può ricongiungersi dunque nel finale alle quartine del COMMIATO che conclude il libro: una accorata “presa in diretta” dell’avvenuta morte del padre (“Sveglio di soprassalto / ascolto fare forza le mie dita / sulla tua fine già trasmessa / alle gambe, al buco della bocca”) e del successivo lutto del figlio (“Oggi non c’è il babbo? / chiede il cameriere grasso / e non sa cos’avrei pagato / per trascinarti a pranzo”). È qui che il colloquio ormai esile si spezza del tutto per inabissarsi nell’assenza, mentre i tentativi di assomigliare all’altro ne rivelano il mancato riconoscimento (“Mantengo la tua calma / il nero della barba / ma non riesco, non so / riconoscerti salma”). Così, dopo un sussulto disperato al paesaggio domenicale di morte (“Ma cazzo, cazzo, cazzo / cosa ci porto, un morto / nella domenica di marzo / fredda di foglie e di marmo?”), Bertoni mette tra parentesi la parola poetica, e con essa la sua intima grammatica delle emozioni, consegnando a un conclusivo quasi silenzio il suo ricordo più estremo: “(Buttarle nel fango / o in qualcos’altro che taccio / lirica e grammatica / da liceo classico)”.
[Alessandro Di Prima]