13/08/07

Piera Mattei, NOTE SU CIBO E POESIA. (3. PRANZI E BANCHETTI)


[Everything comes to an end. Foto di Marzia Poerio]


1. RELIGIONE DELL’APPARIRE [1]

Il convito, come occasione in cui la qualità umana e la condizione sociale degli individui viene messa in mostra è tema classico, religione e moda verso la quale poeti e i filosofi hanno mantenuto un comportamento spesso duplice, restando dentro e fuori della cerimonia e dell'evento.

Quanto viene disprezzato, soprattutto nella tradizione stoica latina, è proprio quanto c'è di più attraente nel rito altamente simbolico, la rapida consumazione di cibo costoso e rarissimo, di apparecchiature preziose e persino d'intere sostanze. Proprio Seneca, frequentatore della mensa imperiale (e, sembra, anche delle donne della famiglia imperiale), nel DE CONSOLATIONE ASD ELVIAM MATREM condanna Apicio, perché, dopo avere dissipato il patrimonio in una serie di monumentali banchetti, si suicidò, dice il filosofo, per essersi trovato nella condizione d'interrompere le sue costose abitudini. Credo che qui, nel suo giudizio negativo su Apicio, Seneca si sia fatto coinvolgere dal gusto dell'iperbole e forse dall'antipatia. Apicio resta, nel suo ambito, un artista consegnato alla storia proprio dalla sua passione, da quel "De re coquinaria", testo di culto ancora oggi per storici e gourmets.


Anche Orazio, nella Satira ottava del Secondo Libro, la cena a casa di Nasidieno, dopo avere descritto ogni sorta di prelibatezze e stravaganti presentazioni di cibi, termina col racconto di un atteggiamento suo e di Vario, dispettoso nei confronti del ricco padrone di casa. Infatti essendo, per disgrazia, crollato un controsoffitto con costernazione dell'anfitrione, questi cerca di riparare al disastro facendo portare nuove e più ricche pietanze. Ma ne vanta troppo la qualità, così né Orazio né il suo amico ne assaggeranno, quasi fossero cibi avvelenati.

Durante la Cena da Trimalcione, nel SATIRICON di Petronio, c'è di nuovo il crollo del soffitto. Si tratta lì solo di un sapiente coup de théatre, per far cadere sulla mensa ancora più inusitate meraviglie. Tutto l'episodio è un eclatante esempio di metaletteratura: Petronio sta citando Orazio, esagerando sull'esibizionismo grossolano del padrone di casa.


2. POEMA SUL NULLA

Atmosfere classiche e riferimenti dichiaratamente futuristi, mi ha evocato la lettura di POEMA SUL NULLA di Francesco Leonetti, pubblicato sulla rivista "L'immaginazione" nel gennaio 2003. Un titolo che è un ossimoro e corrisponde all'obbligo interno al poeta di "fare, di poetare", nonostante la vita sia nulla, un intervallo tra due non essere.

Mangiare è quindi la risposta, in tono di epicureico pessimismo, all'eterno quesito su quale sia il fine della vita:

“Quale rimane un fine, in vita?
Forse, a chi l'ama, il gioco. O
con l'ire delle bande, il fuoco. . .
Ohi, ma non serve. Mangiare è bene! c'è
tanta morte per fame. . . Mangiare;
poi tra gli arredi, freddi passare”.

Nella seconda parte del breve poema, protagonista è lo stesso banchetto, nei dettagli e nelle sue portate, ma soprattutto la libidine del gustare, masticare, divorare. La vita stessa è questo festino dove si consuma "carne al sangue", come è detto nella citazione da una poesia di Clemente Rebora, scritta nel 1915, in atmosfera futuristico-interventista.

In questo grasso e furioso banchetto le componenti attive e passive - chi produce e chi consuma- si mescolano: “Siamo nel Sud d'Italia antica (. . . ). / E' bello intanto vedere le attive donne lavorare”. La donna laboriosa, di quella grazia materna per la quale gli uomini si beano, è la nota più dolce. Un ritmo martellante racconta le leggi di un materialismo che conosce ecologia e etologia, ma è anche materialismo storico, dove l'uomo è animale prepotente, il più prepotente degli animali, tuttavia innocente almeno in parte, se le cellule stesse gridano il loro diritto: “La cellula è in noi mangiante, desiderante, infame”.

Il pessimismo benché capace d'ironia, non perdona alla crudeltà del sistema:

“modernizzazione è fatta di vari macchinoni
a privilegio dell'Occidente bianco, niente
ai tanzani, ai felini, ai conghi, ai sultani”.

Intatta verve poetica e polemica. L'esperimento di descrizione di un banchetto si trasforma rapidamente in poema globale, che agilmente trapassa dai rapporti uomo-donna, alla storia e all'attualità dei rapporti tra gruppi umani, e dell'uomo verso il resto della Natura. Constatiamo che Francesco Leonetti ha attraversato immune l'epidemia di vacuità, di mutamento e dislocamento che ha colpito negli ultimi anni la cultura italiana.


3. SAPORI E INAPPETENZA

Ha un sapore tutto particolare la poesia di Palazzeschi. Un sapore tra Liberty e Deco, con odori di interni borghesi, sofferenze trattenute e godute, disgusti aggraziati, ironie affettuose. Un mondo che, dopo averlo datato, continuiamo ad apprezzare e a sentire, come certi mobili e soprammobili, certi quadri e l'architettura agile e intima d'inizio secolo.

Ma ha sapore la poesia di Palazzeschi anche perché di cibo parla spesso, con passione per l'enumerazione di oggetti e geometrie commestibili, quali per esempio si mostrano in PIZZICHERIA, opera del primo periodo che coincide con il gusto futurista per la cucina, come topos in contrasto con i luoghi comuni della tradizione letteraria.

In questo contesto, il rituale della tavola, violento, obbligatorio e manierato, ha il sapore di una religione greve e impositiva, a cui corrisponde l'inappetenza come segnale chiaro di rifiuto e d'infelicità. Non i comportamenti compulsivi, nevrotici di cui tanto parliamo oggi, ma l'inespugnabile e muta inappetenza di una volta, eccola descritta in LA CENA DEGLI INFELICI (in POEMI) con sicuri tocchi surreali:

“[…] Han tutti le mani giunte, compunte,
i gomiti stretti,
la bocca serrata,
inarcate le sopracciglia,
e guardano il piatto di scorcio.
Sol uno, ch'è intento a ripetere sulla tovaglia, con la sua forchetta,
instancabilmente la solita lettera:
un'o.
E uno, che rotola rotola il suo legasalvietta
[…]”.

La sequenza delle portate, solo per confermare la distanza degli infelici dal facile piacere apparecchiato, la totale mancanza d'interesse, la ripugnanza per quanto dal piatto cerca di sedurre e farsi assaggiare:

“Minestre fumanti,
delizia di purè,
centomila saporosi paté.
[…]
Legumi degli orti proibiti,
meravigliosamente conditi,
tacchini, beccacce, pernici,
[…]
rarissime erbette,
i più ricercati e inverosimili dolci,
biscotti, gelati, sufflé,
rubicondissime frutta.
[…]
Immobili, gli undici,
[…] nella massima rigidità,
neppure una volta si volgono
di qua o di là. . .”

Il tema della cena come duro obbligo sociale, da trattare con ironia o anche con una certa dose di pazzia, torna spesso nella poesia di Palazzeschi, già dalle primissime raccolte, come POEMI appunto del 1909, e L’INCENDIARIO del 1910. In questa raccolta, "IL PRANZO" [2] è un vero musicale crescendo di disagio conviviale e gaffes surreali :

“quanto disgusto provo
al passare d'ogni pietanza,
che mi conviene un po' assaggiare
per la buona creanza”;

e, nel finale, un grido, un' infantile coprolalica profanazione di ogni etichetta:

"Orrore, Orrore!
hanno fatto la cacca
nel bicchierino dell'ambasciatore!"


NOTE

[1]Le precedenti puntate di NOTE SU CIBO E POESIA sono su “Carte allineate” 5 (in data 12-5-07); 6 (15-6-07); 7 (9-7-07) .

[2]Il titolo è tutto in lettere minuscule nell’originale: “il pranzo”.