Riflessioni segrete di Auguste Sander, fotografo (1959).
Non era nelle mie intenzioni vedere così lontano: al momento in cui scattai quelle foto non avevo altro scopo che essere il più oggettivo possibile: proprietari, notai, sensali, dattilografi, macellai, droghieri, pugili, carbonai, imbianchini, soldati, mi fissavano rispondendo all'obiettivo in modo diretto, gli occhi dritti in macchina.
Allora erano solo persone. Le inquadravo con chiarezza e loro mi restituivano la stessa chiarezza. Non avevano nessun atteggiamento: erano come sarebbero stati nella vita di ogni giorno. Pensavo così di fotografare il volto del nostro tempo, ma la mia ricerca oggettiva è stata così perfetta da andare ben oltre: io ho fotografato, più che i volti del mio tempo, gli aguzzini e le vittime della mia epoca. Mi spiego meglio: quando, qualche anno dopo, avendo già saputo dei genocidi di Auschwitz e Dachau, riguardai quelle foto, capii tutto quello che le foto avevano capito prima di me: il popolo tedesco si era mostrato al mio obiettivo come il pensiero e il destino di una generazione che covava l'orrore nazista. Era impossibile non capire, guardando attentamente, che quel notaio alto e austero, fotografato accanto al suo cane snello e superbo, avrebbe avallato i documenti più criminosi a favore della superiorità della razza ariana; che quel tronfio e ripugnante proprietario terriero avrebbe presto osannato, nella folla di Berlino, al signor Hitler; che quella macilenta e disgustosa sensale avrebbe depredato con astuzia migliaia di poveri; che quel soldato dalla faccia serena avrebbe comandato bombardamenti a raffica contro inermi villaggi polacchi; che quel silenzioso e ostinato macellaio avrebbe approvato senza pentimenti l'epurazione ebraica; che i bambini ciechi, i giovani pugili, il disoccupato folle, il comunista malinconico, l'aviatore dalla faccia innocente, erano destinati a crepare senza emettere un gemito.
Era già tutto nelle mie foto, che coglievano la fissità dolente dei morti futuri e la spietata determinazione dei futuri carnefici. Tutti si misero in posa e mi consegnarono l'anima, come spie del loro futuro; doganieri e ufficiali, rivoluzionari e bambini, ispettori e suonatori d'organetto. La loro anima era l'imminente sterminio che li avrebbe visti o cadaveri o colpevoli.
Nessuno deve sorprendersi se, adesso, tutte le prove del mio presagio - quarantamila o cinquantamila negativi conservati nelle cantine della mia abitazione - hanno preso fuoco in un incendio doloso. Non mi interessano i nomi di chi ha commissionato l'incendio: li conosco tutti. E so che non potevano fare altrimenti: dovevano distruggere le foto come avrebbero fatto a pezzi uno specchio che gli rimandasse il loro vero volto.
Io li avevo fotografati come erano prima ancora che lo fossero: questo è stato tanto significativo da diventare, col passare degli anni, intollerabile. Talvolta mi vergogno di aver vissuto il mio tempo solo da testimone e mi pento della mia impotenza. Ma un artista non può mai immaginare completamente la realtà.