Rivista in rete di scritti sotto le 2.200 parole: recensioni, testi narrativi, poesie, saggi. Invia commenti e contributi a cartallineate@gmail.com. / This on-line journal includes texts below 2,200 words: reviews, narrative texts, poems and essays. Send comments and contributions to cartallineate@gmail.com.
A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
Address (place of publication): Italian Dept, Trinity College, Dublin 2, Ireland. Tel. 087 719 8225.
ISSN 2009-7123
12/05/07
Piera Mattei, GOLA: NOTE SU CIBO E POESIA. (1. DACIA MARAINI)
["Those five gifts were so tempting...". Foto di Marzia Poerio]
INTRODUZIONE
Non vi è dubbio che autentica poesia del cibo sia quella che si crea e si celebra tra i fornelli e la tavola. Ma qui parliamo di parole, della materia prima della scrittura. Cominciamo quindi col frugare in quelle particolari dispense che sono i vocabolari, dove cibo non è parola frivola.
Cibo dal latino Cibus. E qui ci fermiamo. Si tratta di una di quelle parole che definiremmo "prime", come quei numeri che resistono a ogni ulteriore scomposizione. Nella sua neutralità non ammette veri sinonimi, perché alimento o nutrimento richiamano (come i verbi alo e nutrio da cui derivano) un atteggiamento affettivo tra madre e figlio, tra piccolo e grande, in tutto il mondo animale; poi anche da colto a ignorante, da giovane a saggio, nell'ambito esclusivamente umano e culturale.
Cibo invece, nella sua valenza biologica e fisica insieme, è parola lontana da ogni commozione: definisce la materia organica che l'animale consuma per continuare il ciclo della vita. Cibo, se usato senza aggettivazione, è entità necessaria e potente, benché passiva nell'atto di essere consumata.
In epoca classica, la poesia gnomica e quella satirica hanno individuato nel rapporto col cibo uno dei momenti culturali più delicati, perché se si è uomini non si può assumere cibo senza riferimento a un intero stile di vita: parsimonioso, avaro, generoso, elegante, saggio.
L'Orazio delle SATIRE fece di questo tópos un uso modulato e divertito, indicando ciò che è sano e gustoso portare in tavola: "porri et ciceri [...] laganique catinum", un bel piatto di porri, ceci e frittelle; "holus fumosae cum pede pernae", cavolo con zampetto di maiale affumicato; "[...] tum pensilis uva secundas / et nux ornabat mensas cum duplice ficu", l'uva appesa a essiccare e i fichi ripieni di noci erano l'ornamento della portata finale. Scrisse anche di ciò che stoltamente si cucina solo perché lo impone la moda: "tutus erat rhombus tutoque ciconia nido, / donec vos auctor docuit praetorius" (se ne stava tranquillo il rombo e la cicogna nel nido sicuro, finché un ex pretore non ne lanciò la moda); e di ciò che in tavola si manifesta come sconveniente e risibile segnale d'avarizia: "sordidus a tenui victu distabit", un pasto semplice è assai diverso da un pasto squallido. Ma nelle STIRE le citazioni attinenti alla tavola sono così numerose da configurare - soprattutto il Secondo Libro - oltre a una sapida enciclopedia culinaria, una sorta di storia del vivere a tavola, che data dal terzo decennio avanti Cristo.
La particolare versione oraziana dei precetti epicurei, saper godere con misura senza compromettere il buon gusto e la morale, si rivolge ovviamente a una società opulentissima. Se ne ritrova l'intenzione, ma il tono è completamente diverso, in un breve componimento d'occasione scritto da Voltaire nel 1750, durante una cena a una corte tedesca. L'autore, elencando tutto quanto il faut, con la sintesi di una rima semplice riesce a conferire evidenza proverbiale al momento e al piacere della tavola:
"Il faut de soir, un souper délectable,
Où l'on soit libre, où l'on goute à propos
Les mets exquis, les bons vins, les bons mots."
(La sera non mancherà una cena deliziosa,
dove sentirsi liberi, dove gustare con misura
i piatti raffinati, i buoni vini, il sapido conversare).
Fino a qui un accenno d'antefatto al nostro discorso, che si occuperà di autori contemporanei, dove il cibo si fa presenza più discreta e meno diretta. Dato che la dietetica è quasi riuscita a soppiantare l'etica (non è solo un gioco di parole), e mangiare troppo o troppo poco, cibi giusti o sbagliati non è senza pregiudizio verso le persone, i poeti - per la maggior parte - si astengono dal parlare di cibo. Di più, parlare di cibo in poesia sembra diventato un tabù, forse se ne parla troppo in ogni momento della giornata. Tuttavia il cibo continua a insinuarsi nel dettato poetico con metafore, nomi, verbi, situazioni.
Ne parleremo con riferimenti trasversali, come nelle esemplificazioni di un dizionario, oppure, dove la materia sia ricca e interessante, prendendo in considerazione un singolo autore. È il caso, qui di seguito, di Dacia Maraini.
1. EROS E CIBO NELLA POESIA DI DACIA MARAINI
1.1. Scrivo questo titolo e si presentano alla memoria due immagini. In una siamo sedute - Dacia Maraini e io - a un tavolo, una specie di cattedra dismessa, dentro una grande stanza semivuota, al "Governo Vecchio", prima ancora che diventasse un luogo affollato di donne. Stiamo discutendo forse gli esiti, forse il progetto di uno spettacolo di strada (se ne organizzò più
di uno in quegli anni fervidi presso il teatro della Maddalena). Vedo lei che mentre parla fa beccare dalle sue mani una ciliegia matura a un passero, arrivato lì non so come. Nell'altra immagine siamo nella cucina della villa di Sabaudia, e Dacia - con Ninetto Davoli che le gira intorno e le dà intralcio - sta preparando mper tutti noi, ospiti e amici, alici marinate nel succo di limone. Le immagini sono della fine degli anni '70.
In quel periodo, nel 1978 per la precisione, dopo DONNE MIE, raccolta di poemetti brevi dove alla vena documentaria e alla passione femminista si combina l'elemento pedagogico, erano uscite - ancora per Einaudi - le poesie di MANGIAMI PURE.
1.2. IL CRUDO
Direi che proprio da lì, da MANGIAMI PURE, l'oggetto dell'ispirazione va decisamente spostandosi dal politico al personale. L'ascolto meticoloso dei moti interiori, il racconto e la dilatazione dell'esperienza goduta e patita, compie una progressiva occupazione dello spazio poetico. È in questa raccolta che il cibo comincia a essere presente quasi in ogni pagina, col suo colore e odore, ma soprattutto con la sua valenza simbolica. Non ha implicazioni proustiane, non fa emergere il ricordo, non odora di interni borghesi e di rituali familiari.
Direi: è crudo cibo, nel significato più vasto dell'aggettivo. L'atto dell'ingordigia, la voglia di cibarsi e di farsi cibo, avviene a cielo aperto o nel chiuso di una dispensa dove sono allineate soltanto materie prime, sostanze che definiscono insieme gli elementi del gusto e della passione.
Inghiottire e essere inghiottiti è compulsione che corrisponde a una fitta dolorosa, ma sognare la liberazione da quell'istinto dove vita e morte si macinano, è follia. Nel testo teatrale STRAVAGANZA (Roma, Serarcangeli, 1987), dove il dialogo si svolge appunto tra alienati mentali, il personaggio Peres sogna "un essere senza viscere, senza notti fonde negli intestini, senza viltà stomacali [...] solo pensiero, un soffio divino". Il lavorìo degli organi interni, macchinoso e estraneo lavorìo, è l'altro lato della fame che fa spalancare la bocca. È nello stomaco che, in qualche modo, si colloca l'antro dell'inferno ovvero l'ardente purgatorio incluso nell'istinto vitale. È quello il luogo fisico della disperazione che ha solo un temporaneo sollievo, mai
una vera tregua.
1.3. IL LIQUIDO
Dunque quella dispensa: una teca dove ogni elemento non solo ha un nome, ma un odore, un sapore. Simile anche alla paletta del pittore, perché l'autrice ha grande cura del colore. C'è abbondanza - come nel mio ricordo - di rosse ciliegie, di rubicondo cocomero, di scura cioccolata e, soprattutto, di candido e denso latte. Sono stata tentata di catalogare quante volte il nome di una sostanza ritorni in questa raccolta e nelle successive DIMENTICATO DI DIMENTICARE (Torino, Einaudi, 1982), e VIAGGIANDO CON PASSO DI VOLPE (Milano, Rizzoli, 1991).
Il latte è forse l'elemento che nel suo colore e nella sua consistenza, abita di più queste pagine, quasi intridendole della sua natura liquida, innocente e necessaria. Il latte che si versa e si beve è sostanza animale, tiepida ma incruenta. Di latte sono fatte le mani di un uomo bruno o il ventre della donna-madre-amante; il dondolio delle tende è color latte; "occhi a vela /[...] vanno e vanno / su onde di latte"; "villa Borghese mette su un'aria languida / [...] in un latte di foglie dormienti"; "il ricordo di un agosto spagnolo / mi fa cagliare il latte nelle vene"; e molti altri esempi ancora. Solo talvolta, uscendo dalla metafora, quel liquido cibo assume una connotazione reale e si mescola negli odori di un caffellatte al mattino: "hai già ingoiato il caffellatte che sa di cloro" (MANGIAMI PURE, p. 4).
Di analoga natura, prodotto animale elaborato per la nutrizione, pronto a essere gustato e deglutito senza conoscere l'assalto dei denti, il miele è onnipresente. Ma vino, aceto, olio e olive, e la frutta - uva e ciliege soprattutto - sono altri elementi semplici e crudi che compongono i discorsi e i caratteri. Sono anche la materia di cui si sostanziano mani, teste, lingua, sguardi.
E tuttavia, sebbene il latte - alimento materno - corrisponda per lo più alla rassicurazione, le madri rassicuranti non lo sono, quasi mai. I loro giudizi sui figli, essenziali, ruvidi, rivelano talvolta la violenza di un'intenzione sacrificale:
"Era un bambino feroce
la timidezza gli incideva
le palpebre e voleva solo
morire, la madre pensava di
lui che era goffo e peloso
come una pecora pasqualina"
(DIMENTICATO..., p. 100).
Un cibo non più liquido, anzi dubbiosamente semiliquido, che non ha a che vedere col sapore nutriente della vita, ma col suo insopportabile odore, non amorosamente o sapientemente cucinato, piuttosto semplicemente cotto, è la "minestra" "Che cazzo di minestra / è la vita amore mio" (DIMENTICATO..., p. 73).
In generale mi pare che, nelle due prime raccolte, l'atto di cucinare, non sia mai pacifico rituale casalingo e neppure elaborata e divertita arte di trasformare il cibo. Anche quando occupa un'intera poesia - come in INSULTI (p. 10) - esprime con l'uso martellante degli infiniti mescolare, tritare, buttare, versare, scodellare, tagliare: un gesticolamento ostile e ritmo di coltelli incrociati. Altre volte preparare il cibo ha lo stesso significato che farsi cibo: "Ho sognato di cucinare un porco al forno [...] un uomo bellissimo [...] mangiava dentro un piatto [...] delle zampe di porco / e un cuore di donna", dove chi era cuoco si è trasformato in vivanda e chi cominciava con l'essere vivanda si è fatto tranquillo divoratore. La cucina, metafora di rapporti che non conoscono o non sopportano la mediazione razionale.
1.4. LA RACCOLTA, LE CONSERVE
La minestra come cibo di mortificazione che qualcuno vorrebbe farti ingurgitare a forza, che abbiamo trovato in DIMENTICATO DI DIMENTICARE torna in VIAGGIANDO CON PASSO DI VOLPE: "Mandare giù tutta quella minestra / non fa per me / eppure mangio e cammino / e rido e dico a tutti che me la cavo" (p. 66).
Eppure, a ben considerare, in questa raccolta Dacia Maraini sembra guardare con volontà di distacco al suo "passato di cruda vivanda", alla predilezione per cibi elementari e crudi. È ormai tempo anche di "piatti complicati", come scriverà più tardi in DOLCE PER SÉ (Milano, Rizzoli, 1997), illustrando lo schema delle sue giornate nella casa di montagna: "Solo la sera mi scrollo di dosso le parole scritte e mi dedico alla cucina. Mi piace preparare piatti complicati da offrire agli amici. Mi dedico anche alle marmellate, ai sottaceti".
Scrive, in quel libro, anche della sua passione per le raccolte nei boschi, soprattutto di funghi che bisogna saper riconoscere, compito verso il quale si sente preparata e impavida contro l'impazienza e la paura degli altri. Se scegliere il cibo implica sicurezza e saggezza, cucinare non corrisponde più a una dichiarazione di guerra ma è uno dei modi di mediare il sentimento, amichevole, rasserenato. È pausa e divertimento che allontana per un po' dall'impegno, dal lavoro assunto con responsabilità religiosa.
Anche se il tempo scorre via rapido, o proprio perché ha accelerato la sua corsa, occorre adesso sapere come procrastinare l'appagamento: preparare conserve, appunto, e marmellate e sottaceti.
A un diverso rapporto col cibo - che comprende la conoscenza di ciò che è commestibile, il rifiuto di quanto si è imparato a individuare come velenoso, il rinvio del soddisfacimento - sembra corrispondere una voce in parte diversa, che conosce la sua stessa fame, e la colloca là nelle viscere, nel vuoto lasciato da una gravidanza senza figlio: "Nel ventre dalle arcate gotiche / un bambino goloso" (p. 46).
Anche la denuncia si è fatta più ironica. Com'è rozza la violenza di reportages di guerra trasmessi all'ora di cena! Ti gettano la "guerra dentro un piatto" con immagini, troppe e eccessivamente vere, che guastano per sempre "l'esperienza carnale del dolore" (p. 29).
La vita, come il cibo, come lo stesso dolore, non va sprecata. I pensieri, le voci dell'ispirazione non vanno dispersi come chicchi di riso lanciati sugli sposi. Questa è l'equazione finale: cibo-vita-ispirazione. E la vita, come il cibo, come l'ispirazione non corrispondono, o non più, a una volontà disperatamente onnivora. Sebbene ancora si può essere raggiunti, di sorpresa alle spalle, mentre si lavano i piatti nel lavello, dagli echi di una vita dove gli incontri erano più violenti: "[...] ho a lungo abitato / dalle parti della desolazione / ora mi par di mangiare chicchi d'uva / troppo dolce rubandola alle vespe" (p. 41).