16/05/07

Enrica Salvaneschi, CANTICO DEI CANTICI. INTERPRETATIO LUDICA


[Laguna delle pietre musicali, 1. Dipinto di Laura Vecchi Ford. Dalla mostra di Palazzo Clerici, Milano, 2007]

Enrica Salvaneschi è poeta, saggista, direttrice della collana di critica Hermaion per Book, docente presso l’Università di Genova di Letterature comparate [1].

Recentemente ha ripubblicato, venticinque anni dopo la prima edizione, la sua traduzione del CANTICO DEI CANTICI (Genova, Il Melangolo, 2007). Che comprende anche un’irresistibile interpretatio ludica, definita un utile atto libertino.

Il senso dell’operazione è ben espresso dall’autrice stessa nel brogliaccio, quando ricorda come un quarto di secolo fa il volume passò quasi inosservato “per una concomitanza di remore” mentre oggi è possibile “un’illusione necessaria”: “che il mio tentativo possa ancora rivestire un certo interesse, e che le virtualità allora rimaste tali possano ritentare ora, trentenni frustrate, di lenire, se non di superare, il loro zitellaggio”.

Quello che connota la presente versione, e la pone vicina a quella di un altro poeta, Emilio Villa, è il suo carattere non-confessionale. Questa “libertà” permette la libertà di una nuova traduzione in prosa del testo, abbandonate poesia e prosa poetica.

La particolare modalità e la scelta interpretativa inducono l’autrice a definire questo lavoro a priori “aporetico”, “programmaticamente non autonomo”, che deve considerarsi indissolubilmente legato alla interpretatio ludica che ne consegue. Qui in realtà il gioco è molto serio e la posta molto alta: si entra nelle pieghe più intime del linguaggio, dove un’interpretazione è decisiva, con una guida sicurissima che documenta senza remore tutte le possibilità, tutte le ascendenze, tutti i rimandi di un’avventura semantica impareggiabile e unica. Si coglie uno sforzo virtuosistico di grandi proporzioni: il tentativo, e la sua riuscita, di riprodurre “nel ritmo critico il ritmo creativo”, “di individuare uno sfuggente pensiero linguistico”.

Altre interpretazioni sono state date del CANTICO, soprattutto in ambiti confessionali, che hanno anche portato a correggere il testo ebraico per conformarlo alla teologia cristiana: già Emilio Villa aveva notato, con il suo irripetibile stile, come trenta secoli nei quali indagini, spiegazioni, torture e storture di vario genere, sovrastrutture, sovrintenzioni e sottintenzioni, tentativi di raddrizzamenti, lotte dispute passioni polemiche dubbi scrupoli (…) hanno sommosso i fondali di un testo in realtà non così oscuro”. Gli fa eco Enrica Salvaneschi affermando che la parità dichiarata fra amore e morte è l’unica cima, l’utopia stupenda cui l’amore del CANTICO può arrivare, se è amore tra creatura e creatura.

Rispetto a versioni caratterizzate da una teofania che trascina il testo verso un terminale messaggio di speranza ultraterrena, rispetto a versioni di chiara esegesi teologica, questa riproposta lettura non fa riferimento ad alcuna ispirazione sacralizzata ma solamente a quella “immanente e terrena della funzione poetica qui generatrice di poesia altissima”.

Il grande merito è proprio di aver finalmente restituito alla sola poesia quest’opera.

Da VIII, 6: “Fai di me un sigillo sul tuo cuore, un sigillo sul tuo braccio: perché l’amore è forte come la morte, dura come l’inferno la passione. Le sue fiamme sono fiamme di fuoco, vampa di Dio (vampe di sé)”.

[1] Questa recensione è tratta da "Carte nel vento", IV.6; e qui riprodotta col permesso dell'autore.

[Ranieri Teti]