[Genoa 2018. Foto Rb]
Nicola Curzi, Nucleo non attinto. Roma, Aletti, 2018
Nucleo non
attinto è il
secondo liber poetico a firma di
Nicola Curzi, già autore della raccolta Lo
scorrere e il rifluire (Sena Nova, 2010) e di altre liriche singole, apprezzate
in competizioni letterarie nazionali e apparse in volumi collettanei.
Il titolo della raccolta esibisce a chiare lettere il
tema cardine delle poesie in essa contenute, ossia il negativo e la mancanza di
senso, che vengono ribaditi, anche se declinati su piani tematici diversi, nei
titoli delle tre rispettive sezioni che compongono la silloge: I. Segmento interrotto, II. Calore incompiuto, III. Trasfigurazione mancata. Questi
quattro sintagmi, identici per struttura sintattica (sostantivo più aggettivo
di senso negativo), costituiscono nella loro sequenza quasi altrettanti
capitoli di un percorso narrativo interno al libro e palesano l’ossatura
argomentativa che poi le singole liriche (33 in tutto) si incaricano di dimostrare
ed esemplificare: la precarietà di significato, la sfiducia nella totalità, la
mancanza di un approdo certo nel percorso di senso compiuto dall’io lirico. Il “nucleo
non attinto” è infatti per Nicola Curzi l’impossibilità di raggiungere la
verità delle cose, l’incapacità di attingere a una dimensione profonda
dell’esistenza che dia pienezza di senso al mondo e al soggetto che lo
percepisce. Come recita uno dei tanti versi marmorei che puntellano il dettato
di Curzi, “il mondo accade e basta”, la realtà si apre al soggetto senza una
certezza definitiva da offrire, ricca solo di “assoluti sgretolati”, e l’io
esiste in “un involucro di buio”, impossibilitato a raggiungere una comprensione
totale di sé e del mondo. Il cuore stesso del poeta è un “vento immutabile e
muto”, un elemento incapace di entrare in risonanza piena con il mondo e che può
quindi limitarsi solo a registrare l’incompiutezza del reale.
L’assenza di certezze gnoseologiche e di pienezza vitale
viene percepita dal poeta di Senigallia attraverso tre esperienze esistenziali diversi:
l’impossibilità di una conoscenza esatta nel rapporto con il reale, sviluppato nella
prima sezione, l’incontro con l’altro da sé, che domina la seconda parte, e l’incapacità
di cambiamento, con conseguente passaggio dall’azione all’inerzia, che è il tema
su cui si chiude il trittico. A questo io lirico mosso alla conoscenza del
mondo a tratti sembrano aprirsi degli squarci possibili di senso, dei “varchi”
che montalianamente accendono la speranza di attingere alla verità sulle cose (e
il verbo che apre la raccolta, “balugina”, sembra rimandare proprio al Montale
del Piccolo testamento), ma a
differenza del poeta ligure, in Nucleo
non attinto nessuna di queste possibilità riesce a concretizzarsi in
un’opzione concreta di salvezza e queste ipotesi di senso sono costrette a
rimanere interrogativi senza risposta. Anche l’incontro con l’altro, con una
figura femminile che fa la sua prima esplicita comparsa nella lirica Lasciai uno spiraglio fioco, non
determina una svolta esistenziale e non dà accesso a una sfera più autentica, collocata
al di là della “corolla del contingente”: anche dopo l’unione con lei, che
viene descritta con potenti immagini sintetiche di corporeo e spirituale, l’io
rimane un “cuore di cartapesta” e l’amore un sentimento non totalizzante, esperibile
solo “a brandelli”.
Questo stato di incertezza, di mancata adesione a una
verità superiore è dunque il tema che informa tutte le liriche della raccolta e
che si riflette anche sul piano dello stile. Saldamente incardinate sulla
tradizione novecentesca del verso libero, le liriche sono costituite per lo più
da versi brevi giustapposti in paratassi tra di loro e hanno un ritmo franto, un andamento discontinuo, rotto da frasi
secche, incisive, che sembra mimare l’incapacità di un discorso totale sulla
realtà e la rassegnazione del pensiero alla caduta inesorabile di ogni
illusione. La cifra distintiva dello stile di Nicola Curzi è il vasto
dispiegamento di sinestesie e di arditi accostamenti analogici che si riscontra
in ogni testo (“spighe screziate di buio”, “scaleno d’orge”, “occhiate di
carezze” alcune delle più memorabili), nei quali tuttavia non va ravvisato un
mero repêchage tardo-simbolista ma
un’esigenza espressiva più complessa. Più che testimoniare le capacità
superiori di un poeta veggente in grado di raggiungere il cuore delle cose, i
virtuosismi analogici vengono utilizzati dal poeta marchigiano per trascrivere sul
piano verbale l’assurdità del reale, materializzare nel testo l’esperienza di
mistero indecifrabile che l’io ha nel confronto con il reale.
In conclusione, Nicola Curzi, per quanto alle prime
esperienze di scrittura di una silloge in sé conclusa, si pone agli occhi dei
lettori come un poeta maturo, dotato di un bagaglio concettuale solido e ben
delineato e consapevolmente imparentato con una tradizione tutta novecentesca
di ‘stile oscuro’ che però nei suoi versi non cede mai alla ambiguità fine a sé
stessa, ma è strutturato da un sapiente controllo degli strumenti espressivi ed
è sempre incardinato, anche nel testo più breve, in un preciso percorso
argomentativo. Una summa, per stile e
per contenuto, di tutta la raccolta è la lirica seguente, che, attivando un
interessante dialogo con il più noto carme di Orazio, si presenta come uno dei
vertici di Nucleo non attinto, collocato
forse non a caso nel centro geometrico del libro:
“Tentasti infine i calcoli babilonesi
e nel ghigno del loro responso
leggesti un eterno presente,
un’immanenza piatta e ultima.
Era il grigio costante
non infranto dalla linea eburnea
non infranto dalla linea eburnea
che discrimina i sì dai no.
Odio abitarti,
abitarti è un tepore
incapace a dischiudersi”.
[Luca Zipoli]