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[The bubble... (Hanoi 2017). Foto Rb]
Il dibattito sull’identità si svolge di continuo, in
quanto pratica di vita, riflessione psicologica, ragionamento socio-politico.
In un articolo su Micromega,
Elena Giorza richiama due libri significativi di questo secolo: l’Intervista sull’identità, del 2003, di Zygmunt
Bauman (che abbiamo recensito a suo tempo su Carte allineate)
e Contro il fanatismo, del 2010, di Amos
Oz.
Giorza identifica vari aspetti dell’indagine
baumaniana sulle identità deboli, più ancora si dovrebbe dire flessibili e
provvisorie, provocate dalle configurazioni sociali della tarda modernità.
A noi pare che il discorso di Bauman sia piuttosto
oggettivo; e che, alle spalle dell’obiettività, la sua ricerca riveli chiaramente
insoddisfazione per il fatto che così vanno le cose. Discordiamo dunque dall’interpretazione
di Giorza, secondo la quale Bauman “è il modello fatto proprio dagli Stati
Uniti e ha dimostrato tutti i suoi limiti”. Bauman è semmai il sociologo che ha
anatomizzato la tarda modernità e la sua liquidità, ma non per questo concorda,
a livello di modelli di vita da proporre, con i fenomeni che analizza e che si
sono rivelati prevalenti nella società degli ultimi decenni.
Non pare dunque che sarebbe in contrasto con l’impostazione
di Bauman la proposta dell’autrice dell’articolo di un’identità forte, distanziata
(e qui concordiamo) dai fondamentalismi, favorevole alla pluralità e poggiante
sull’idea di Oz di identità come “penisola”, anziché isola individualista, un
territorio “peninsulare” perché ha prospettive tanto sul mare delle libere scelte
quanto sulla terraferma dell’Altro. Scrive Giorza:
“Appare evidente come la
contemporaneità, con le sue sfide legate alla globalizzazione e al
multiculturalismo, richieda un impegno, non solo da parte dei singoli
cittadini, ma anche dei loro Stati, rispetto alla questione dell’identità.
Posto che il progetto kantiano di una universale unificazione dell’umanità - e
quindi della costituzione di un’unica identità completamente inclusiva e priva
di ogni volontà di tipo discriminatorio - risulta ambizioso e a lungo termine;
sembra necessario trovare una soluzione, certamente più modesta, ma attuabile.
L’obiettivo potrebbe essere quello di assumere l’impegno di formare identità
individuali solide”.
Se questa angolazione si presenta come
progressista, vorremmo citarne anche un’altra, totalmente opposta e davvero estrema,
ma anch’essa progressista e sfavorevole ai fondamentalismi e agli eccessi di rivendicazione
identitaria, che finiscono col creare divisione sociale e violenza, da un lato,
e narcisismo individualista dall’altro. Si tratta dell’idea di Francesco Remotti,
basata su presupposti antropologici e sociologici, che l’identità è un peso dal
quale sarebbe meglio liberarsi. Remotti è passato da una posizione perplessa
rispetto all’identità a quella del volume L’ossessione identitaria (2010), in cui,
come egli stesso annota, “assume una posizione ancora più radicalmente contraria all’identità”. E spiega:
“[…] se la costruzione dell’identità diventa un
compito assorbente, totale, onnicomprensivo, un compito che occupa in maniera
unilaterale tutta la nostra cultura (se si parla di un soggetto collettivo) e
le nostre energie (se parliamo di soggetti individuali), l’effetto sarebbe
deleterio. Perché mai? Perché inserirsi in una logica esclusivamente
identitaria significa entrare in conflitto fortissimo con gli altri e significa
dare luogo a quelle situazioni che in Contro
l’identità [1996] avevo descritto in termini di distruzione dell’altro”.
Nel compilare queste note, che restano volutamente
così, senza opinioni personali troppo marcate, è occorsa alla mente l’idea di anātman del Buddhismo, cioè una teoria critica dell’ātman
induista, termine, questo, da rendersi solo vagamente come anima individuale, o
essenza eterna che pervade tutti gli esseri, mentre il Buddhismo arriva fino a
sostenere un non-io, dato che tutto,
anche l’identità personale, è impermanente e si modifica di continuo.
[Roberto Bertoni]