In una recente analisi de I giorni
dell’abbandono di Elena Ferrante[1] ho
messo in evidenza che Olga, la protagonista del romanzo, inaugura un nuovo approccio
epistemologico ai concetti di soggetto e di realtà che poi si evolverà
ulteriormente nel ciclo de L’amica
geniale. Traumatizzata dall’abbandono del marito, Olga vede la materia
disintegrarsi, perdere i suoi solidi contorni, uscire dai margini. Si tratta di
un processo di decomposizione che riguarda un po’ tutti: soggetti umani e
animali, oggetti inanimati, dispositivi tecnologici. La mia opinione in
proposito è che tale processo – tra la “frantumaglia” degli scritti teorici e
la “smarginatura” dei romanzi napoletani – suggerisca una nuova configurazione
della realtà nella quale, come afferma la filosofa Barad, “matter is substance in its intra-active becoming – not a
thing, but a doing […] a stabilizing and destabilizing process of iterative
intra-activity”.[2]
In questo nuovo mondo di fenomeni dinamici ed
intra-attivi, l’agente umano non ha più il controllo del processo di conoscenza
perchè quest’ultimo è il prodotto dell’intra-azione fra soggetti umani e animali, oggetti inanimati, dispositivi tecnologici: tutti
dotati di un’agenzialità [agency]
equipollente. Le tradizionali logiche causali utilizzate dal soggetto per dare
ragione dei fenomeni, sono pertanto inutilizzabili.
Come ne I giorni dell’abbandono,
anche ne L’amica geniale accadono
fenomeni che sono inesplicabili dal punto di vista della logica tradizionale.
Mi riferisco, ad esempio, all’esplosione della pentola di rame, episodio che
accade poco dopo il famoso Capodanno nel quale Lina si accorge per la prima
volta di soffrire del male della “smarginatura”. Se a Capodanno Lina aveva
cominciato a vedere le persone fuoriuscire dai loro confini corporei e
mescolarsi con la materia circostante, in un’orrida mistura di sangue, carne e
materia inerte, l’esplosione della pentola di rame avviene indipendentemente da
un agente umano e dunque costituisce un passaggio fondamentale nella
rappresentazione della “smarginatura”: la prova che quell’orrenda realtà senza
confini nè margini effettivamente esiste, senza bisogno di un soggetto che la
pensi.
Lei, insomma, stava sola in cucina a fare i piatti ed era
stanca, proprio senza forze, quando a un certo punto c’era stato uno scoppio.
S’era girata di scatto e s’era accorta che era esplosa la pentola grande di
rame. Così, da sola. Era appesa al chiodo dove normalmente si trovava, ma al
centro aveva un grande squarcio e i bordi erano sollevati e ritorti e la
pentola stessa s’era tutta sformata, come se non riuscisse più a conservare la
sua apparenza di pentola.[3]
Non potendo essere attribuita ad alcun intervento umano,[4]
l’esplosione della pentola di rame diventerà nel corso del romanzo il simbolo
ed il significante di una realtà in cui gli oggetti interagiscono l’uno con
l’altro e producono effetti su esseri umani ed oggetti inanimati
indipendentemente dal fatto che esista o meno un soggetto di conoscenza in
grado di conferire un senso a tali fenomeni.
Un altro esempio di radicale trasformazione della materia
si verifica ne La storia del nuovo
cognome, durante l’accesa discussione tra Rino, Gigliola, Pinuccia e
Michele Solaro che non concordano se affidare o meno a Lina la gestione del
negozio di scarpe in Piazza dei Martiri. In questo caso, l’improvviso
cambiamento molecolare riguarda
l’auto-combustione del famoso pannello raffigurante Lina in abito da sposa,
pannello su cui Elena e Lina erano intervenute rendendo irriconoscibile la foto
originaria:
All’improvviso, non si sa come, il pannello [...] emise
un suono rauco, una specie di respiro malato, e s’incendiò con una sfiammata
alta. Pinuccia era di spalle alla foto, quando successe. La vampa le si levò
dietro come da un focolare segreto e le lambì i capelli, che crepitarono e le
sarebbero bruciati tutti in testa se Rino prontamente non glieli avesse spenti
a mani nude.[5]
Varie spiegazioni, alcune delle quali di sapore
decisamente magico-realista – come l’intervento diabolico o le fatture di Lina
- vengono ipotizzate dagli astanti per questo episodio. A mio parere, però, ci
troviamo di fronte ad un altro esempio del fatto che, nella realtà di Elena
Ferrante, la materia è una cosa viva dotata di una propria finalità.
Che cosa c’entra tutto questo con la questione
dell’identità? In che modo l’identità del soggetto ferrantiano può essere messa
in relazione con l’esplosione di una pentola o l’improvvisa auto-combustione di
un quadro?
Proviamo a rispondere con un’altra domanda. Se non esiste
un soggetto umano a cui possano essere imputate queste azioni, è proprio
necessario, in linea generale, un soggetto che abbia agenzialità? Se è la
pentola ad essere responsabile per la propria esplosione, perchè cerchiamo a
tutti i costi un agente umano che dia ragione di tale fenomeno?
Se applichiamo questo paradosso all’annoso dibattito sull’identità
di Elena Ferrante e ci chiediamo se è necessario individuare un autore empirico
dietro l’atto di scrittura, pare facile concludere che un libro non si scrive
da solo. Nessuno mai avallerebbe una simile ipotesi. Un libro che si scrive da
solo contravviene al principio di autorialità, a quella convenzione solidamente
affermatasi più o meno dal tempo in cui Gutenberg inventò la stampa, nella
seconda metà del Quattrocento: convenzione per la quale il nome dell’autore sul
frontespizio corrisponde all’immutabile identità di un volume non più affidato
alla fluida tradizione manoscritta che modificava il testo in dipendenza da
vari fattori che comprendevano la disposizione umorale e fisiologica dello scriba.
Insomma, dal Cinquecento in poi, all’immodificabile volume tipografico
corrisponde la solida identità di un autore che lo licenzia per la stampa e
così afferma: questo volume è mio, ne sono l’autore.[6]
Se Elena Ferrante ha deciso di sfidare questa convenzione
ci sono almeno tre possibili ragioni, probabilmente tutte valide. Primo: il
libro si è scritto da solo, ovvero non può essere attribuito ad un singolo
autore ma è il frutto di una collaborazione tra individui (un team di
specialisti, gli editori, un marito e una moglie). Secondo: il libro, dopo
essere stato scritto, diviene un’entità autonoma, dotata di una propria vita
separata da quella del suo autore. Questo è quello che Ferrante ha predicato da
sempre. Dunque, benchè esista un autore in carne ed ossa, costui si comporta
come un genitore biologico che abbandona il proprio figliolo sulle scale di un
orfanatrofio. Terzo: l’autore ritiene che in questa nostra era digitale,
socio-mediatica e postumana, non possiamo continuare ad onorare un principio
codificato seicento anni fa, quando la stampa rappresentava quella rivoluzione
copernicana che consentiva di collegare un individuo determinato, l’uomo
vitruviano della tradizione umanistica, o almeno il suo nome, all’oggetto
libro.
Se prendiamo per buona questa terza ipotesi, che non
esclude le altre, le conseguenze che ne derivano sono esattamente quelle che
poi, in fin dei conti si sono verificate. E cioè che l’autore, lungi dal
volersi realmente nascondere, ha voluto semplicemente giocare a nascondino con
il lettore, istigandolo ad interrogarsi sulla questione dell’identità. E quale
sarebbe la motivazione profonda del comportamento di Ferrante? Quale imperscrutabile
istinto l’avrebbe portata a collocare davanti al lettore una pentola che
esplode da sola, un quadro che va in fiamme, un libro senza autore?
A me pare che la risposta a questa domanda sia ancora una
volta abbastanza semplice e per questo, forse, generalmente trascurata. Se
l’obbiettivo di Ferrante è quello di separare il fenomeno dal soggetto umano e
conferire agenzialità all’oggetto, ciò che davvero preme all’autrice è che il
lettore si chieda nel corso della lettura: chi è il soggetto? Esiste un
soggetto? E se esiste, è un ente o un simulacro? E insomma: che cos’è
quest’identità?
La mia ipotesi è che il processo di ricerca dei romanzi
napoletani conduce alla scoperta della perdita di centralità del soggetto
tradizionalmente inteso che lascia il passo al nuovo soggetto postumano,
relazionale e vitalistico, emerso nella post-modernità con la fine
dell’antropocentrismo. Vediamo come.
In principio l’identità, per Elena Ferrante e per il suo avatar Elena Greco, è l’io scritto, o ciò
che di esso si consegna alla pagina. La narrazione conferisce un tempo, un
significato ed una forma ad un “paesaggio” interiore “instabile” e frammentario:
“La frantumaglia è [...] una massa aerea o acquatica
di rottami all’infinito che si mostra all’io, brutalmente, come la sua vera e
unica interiorità. La frantumaglia è il deposito del tempo, senza l’ordine di
una storia, di un racconto”.[7]
Nei romanzi napoletani, Elena Greco riesce a rimanere stabile e centrata
grazie alla sua incrollabile fede nel potere della lingua scritta sulla materia
informe e frammentaria che da lei viene letteralmente ricomposta e imbrigliata
nella griglia della scrittura. Tramite un atto di auto-determinazione che ha le
sue radici nel potere performativo della lingua, Elena Greco trasforma il
cogito cartesiano – “penso dunque sono” – nell’audace enunciato performativo:
“scrivo dunque sono”.
Viceversa, Lina è sopraffatta dalla paura di
disintegrarsi in un’identità liquida nella quale i confini tra soggetto e
oggetto, identità e alterità, non sono chiaramente definiti. Quella che
Ferrante chiama “smarginatura” è appunto una peculiare affezione del soggetto
cognitivo e senziente per la quale l’individuo esperisce la realtà circostante
non come un oggetto di conoscenza che è esterno al soggetto umano, ma come un
“fare” o un “divenire” in cui soggetto e oggetto sono radicalmente invischiati
e co-implicati.[8] Dal flusso performativo di
questa realtà che si comporta come un conglomerato di attività agenziale in cui
tutti gli enti possiedono la stessa responsabilità nella produzione dei
fenomeni, Lina è simultaneamente respinta e fatalmente attratta, tanto da
arrivare a desiderare la propria cancellazione.
Ecco perché Lina deve dare ad Elena una forma scritta: “io che ho scritto mesi e mesi e mesi per darle una forma che non si
smargini, e batterla e calmarla, e così a mia volta calmarmi”.[9]
Se Elena “scrive” Lina perchè l’identità della sua amica
geniale non venga sopraffatta dall’intrusione della materia umana, animale,
vegetale ed addirittura elettronica (il computer che da un certo momento in poi
rappresenta il suo alter ego) che preme ai confini, qual è l’alterità da cui
Elena si difende, la ‘frantumaglia’ che scongiura attraverso la parola scritta?
Naturalmente quella di Lina, dalla cui identità si sente
assediata perchè rischia continuamente di confondersi con la sua: “E la sua vita si affaccia di continuo nella mia, nelle
parole che ho pronunciato, dentro le quali c’è spesso un’eco delle sue, in quel
gesto determinato che è un riadattamento di un suo gesto, in quel mio di meno che è tale per un suo di più, in quel mio di più che è la forzatura di un suo di meno”.[10]
Sostenitrice della filosofia della differenza, Ferrante
pare avallare con la sua epica narrazione dell’identità, un principio
fondamentale predicato da Gilles Deleuze secondo il quale l’identità non può
considerarsi come un concetto primario al quale il principio di differenza si
opporrebbe come antinomico. Capovolgendo il paradigma dell’identità e
sostituendolo con quello della differenza, Deleuze finisce per negare che
l’essenza del soggetto possa consistere nella sua identità e postula il
principio di differenza come elemento primario nella definizione dell’identità.
Dunque, l’identità è il prodotto della relazione tra due (o più) elementi
differenziali.
Qual è la conseguenza di questa complessa speculazione filosofica se la
utilizziamo come chiave di lettura dei romanzi napoletani di Elena Ferrante? Se
applicata ai due personaggi di Lina ed Elena, la nozione deleuziana di
differenza ci porta a dedurre che nè Elena nè Lina hanno una propria identità
primaria. Sono invece due differenziali che producono la rispettiva identità:
un’identità che vive in bilico sui margini, in una zona anonima percorsa dalla
traccia della scrittura. Proprio come l’autrice il cui nome compare in
copertina.
Quella che i lettori finiscono col trovare nei romanzi napoletani è allora
un’identità postumana che emerge dalla dissoluzione del soggetto tradizionale,
quel soggetto che – come Elena Greco – è tenuto insieme da un consapevole atto
di auto-riflessione fondato su un pensiero di stampo dualistico (“penso dunque
scrivo”). Mi sembra opportuno concludere questa riflessione con una citazione
di Rosi Braidotti sul soggetto postumano che potrebbe essere stata scritta
dall’amica geniale Lina Cerullo: “What we humans truly yearn for is to disappear
by merging into this generative flow of becoming, the precondition for which is
the loss, disappearance and disruption of the atomized, individual self”.[11]
[1] E. M. Ferrara, ‘Performative
Realism and Posthumanism in The Days of
Abandonment’, in The Works of Elena
Ferrante. Reconfiguring the Margins, ed. by G. Russo Bullaro and S. Love
(New York: Palgrave Macmillan, 2016) pp. 129-157.
[2] K. Barad,
‘Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to
Matter’, Signs (University of Chicago
Press) 28.3 (2003), 801–831 [822]. Web. 12 January 2017.
[4] Alla madre che l’accusa di averla rotta, Lina replica che una pentola, “anche
se cade, non si spacca e non si deforma a quel modo” (Ibidem).
[5] E. Ferrante, Storia
del nuovo cognome (Roma: E/O, 2012), pp.139-40.
[6] Sulla transizione dall’oralità alla scrittura, cfr.: G.
Alfano, Nelle maglie
della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile (Napoli:
Liguori, 2006).
[7] Elena Ferrante, La frantumaglia
(Roma: E/O, 2014), p. 95.
[8] La mia impostazione teorica si basa sul realismo
performativo o agenziale di Barad second cui “things
do not have inherently determinate boundaries or properties, and words do not
have inherently determinate meanings” (K. Barad, ‘Posthumanist
Performativity’, cit., p. 813).
[9]Elena Ferrante, Storia della bambina
perduta (Roma: E/O, 2014), p. 466.
[10] E. Ferrante, Storia
del nuovo cognome, cit., p. 337.
[11] R.
Braidotti, The Posthuman (Cambridge:
Polity Press, 2013), p. 136.